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Il grido dei poveri ci svegli dal sonno

Briciole dalla mensa - 20° Domenica T.O. (anno A) - 20 agosto 2017

 

LETTURE

Is 56,1.6-7   

Sal 66   Rm 11,13-15.29-32   

Mt 15,21-28

 

COMMENTO

 

Con il capitolo 56 inizia la terza parte del libro di Isaia.

Durante i primi decenni che seguono la fine dell’esilio di Babilonia (538 a.C.), nella comunità di Gerusalemme il gruppo degli stranieri – più numeroso che mai a causa delle molte invasioni – manifesta qualche timore a proposito della sua accoglienza in seno al popolo eletto: «Certo, mi escluderà il Signore dal suo popolo!». Ci sono altre minoranze, che si sentono «alberi secchi» e che perciò hanno paura di venire espulsi come pietre di scarto.

Il profeta anonimo, che scrive queste pagine, annuncia a questo punto uno degli oracoli più aperti e più universalistici dell’A.T.: nessuno si deve sentire escluso dalla comunità di salvezza; tutti i figli di Adamo possono farne parte, anche gli stranieri. Pone un’unica condizione: osservare il diritto e praticare la giustizia.

Questa duplice raccomandazione è tradizionale in Israele, negli scritti profetici, nei salmi e nei testi sapienziali e legislativi. Giustizia e diritto sono qualità che appartengono a Dio. Attenersi alla giustizia e al diritto equivale ad attenersi all’alleanza proposta dal Signore. Per fare questo non si richiede che uno sia figlio di Giacobbe, che appartenga cioè al popolo eletto, basta che sia figlio di Adamo. Per il profeta anche gli stranieri, un tempo sfruttatori di Israele, potranno diventare essi stessi membri del popolo di Dio, chiamati a condividere la fede, la preghiera, i benefici che il Signore elargisce ai suoi figli. “Oracolo del Signore Dio, che raduna i dispersi di Israele: «Io ne radunerò ancora altri, oltre quelli già radunati»" (Is 56,8).

 

Questa profezia non ha trovato facile accoglienza in Israele. Avveniva allora quello che accade anche oggi. Non so quanti di coloro che frequentano le nostre assemblee domenicali sentiranno il cuore pieno di gioia all’annuncio di questa prospettiva universale di salvezza. Sempre più spesso basta solo udire la parola “straniero”, o “profugo”, per costruire subito muri di diffidenza, di paura e anche di aperta ostilità. Da qualche tempo, e in maniera crescente, vedo, anche nelle nostre comunità, una opposizione viscerale allo straniero, che obbedisce alle parole d’ordine di nuovi capipopolo, piuttosto che alla parola alta, esigente e liberante della Scrittura. Non sappiamo più avere lo sguardo lungimirante del profeta e siamo preoccupati di mettere in salvo solo il nostro immediato interesse. Mi interrogo sempre più spesso sulla vita di don Lorenzo Milani, di Gandhi, di Luther King, di Helder Camara, di Romero, e di moltissimi altri testimoni, profeti e martiri, e mi domando come sarebbe stata la loro vita, la nostra vita, quella del mondo, se avessero obbedito alla cultura dominante che insegnava l’esclusione, l’emarginazione dei poveri, la disuguaglianza sociale, la sottomissione ai potenti. Io credo che la povertà morale, il diffondersi di un pensiero debole, la chiusura narcisistica attorno al proprio io, dipenda in gran parte da una radicale e colpevole ignoranza della storia e della sua drammatica complessità e, per i cristiani, anche da una grave e colpevole ignoranza delle Scritture.

Il Vangelo è rivoluzionario, ma molti preferiscono assopirsi al caldo di rassicuranti pratiche religiose, che non promuovono l’impegno solidale verso gli altri. Contro una religione rituale ed estetica lo stesso Gesù tante volte ha alzato la voce: «Guai a voi, farisei, che pulite l’esterno del piatto e del bicchiere, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria» (Lc 11,39).

 

Il brano del vangelo sottolinea, ancora una volta, l’apertura del Regno anche ai popoli pagani: anch’essi sono chiamati a sedersi a tavola con i figli, condividendo il medesimo pane. Non si possono accontentare di qualche briciola.

Ad una prima lettura il racconto di Matteo sembra assumere una posizione piuttosto rigida: Gesù sarebbe venuto unicamente per gli ebrei; la grande fede della donna pagana gli avrebbe strappato un miracolo che sarebbe solo una eccezione alla regola (v.28). Il racconto di Marco, invece, rivela una posizione più moderata: prima i giudei e poi i pagani (Mc 7,27).

Possiamo dire che Matteo ha adattato il racconto di Marco, che è la sua fonte letteraria, al suo ambiente giudeo-cristiano, nel quale appaiono parecchie difficoltà a spalancare ai pagani, agli stranieri, le porte della Chiesa. Ritengo che le nostre comunità di oggi, almeno nel nostro ambiente, siano più vicine alla mentalità chiusa e legalistica delle comunità alle quali si rivolge Matteo, piuttosto che all’apertura, cordiale e fraterna, delle comunità di Marco, formate prevalentemente da giudei della diaspora e dal ceto proletario delle grandi periferie urbane, di Roma in particolare. Il povero accoglie più facilmente il povero.

 

«Pietà Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio!».

Ma egli non le rivolse neppure una parola.

Secondo la mentalità di quel tempo, ogni malattia era dovuta all’influsso di uno spirito cattivo, e ogni guarigione era legata all’efficacia di un esorcismo. Ma Gesù, di fronte alla richiesta della donna, tace.

 

«Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!».

Qualcuno traduce: «Mandala via!».

Gesù risponde con una frase che sembra ribadire la sua precisa volontà di non intervenire: «Non sono statomandato se non alle pecore perdute di Israele». E’ una posizione intransigente, di netta chiusura. Esprime in realtà la netta chiusura della comunità giudaico-cristiana nei confronti degli stranieri.

Stupisce l’insistenza della donna: «Signore, aiutami!». E ancora una volta una risposta durissima: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Nella mentalità corrente gli ebrei sono i «figli» e tutti gli altri sono «cani». Il diminutivo attenua solo un poco il senso di disprezzo. Non è consentito gettare il pane dei figli ai cani. Ai figli tutto; agli altri niente.

A questo punto la madre disperata si aggrappa al timido barlume di speranza che affiora nella risposta negativa di Gesù: per me almeno le briciole che cadono dalla tavola del padrone!

Di fronte alla fede di questa donna, Gesù è obbligato a cedere: «Grande è la tua fede! Avvenga per te comedesideri». E’ come se Gesù dicesse a noi di imparare ad avere uno sguardo diverso, un cuore più aperto.

 

In conclusione il titolo della fede ha ragione su quello dell’appartenenza. Saremo giudicati sulla fede che fiorisce nell’amore e nel dono di sé, piuttosto che sull’esibizione di presunte culture cattoliche o sulla custodia di generici valori cristiani, che non sappiamo nemmeno più quali siano.

Anche oggi la chiesa cerca la sicurezza e teme il rischio; nonostante i ripetuti richiami di papa Francesco per una chiesa “in uscita”, tende a chiudersi in sé stessa, a compiacersi nel ghetto, a evitare i pericoli dell’avventura.

Il grido dei poveri, come quello disperato della donna cananea, ci svegli dal nostro sonno e ci apra all’incontro con il fratello.

Dio vuole offrire per tutti una zattera di salvezza, e questo avviene solo nell’incontro tra umani, senza esclusioni.

 

Giorgio Scatto

 

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