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Pietro e Paolo, affidàti a Gesù Messia di pace

Briciole dalla mensa - Festa di S. Pietro e Paolo apostoli - 29 giugno 2025

 

LETTURE

At 12,1-11   Sal 33   2Tm 4,6-8.17-18   Mt 16,13-19

 

COMMENTO

 

Diversi e ambedue necessari, passionali e capaci di un amore tenerissimo, afferrati dal Vangelo della grazia e pronti a decisivi contrasti tra di loro, legati alla tradizione dei padri e radicalmente innovatori, culturalmente orientali e spiritualmente universali: questi sono i due apostoli, Pietro e Paolo, di cui oggi facciamo memoria. Il martirio subito a Roma  li unirà definitivamente in quella carità perfetta che entrambi hanno cercato di promuovere nella Chiesa. 

La prima Lettura, dal libro degli Atti, ci narra delle prime persecuzioni patite dalla comunità cristiana di Gerusalemme: il potere politico e il potere religioso si alleano insieme contro chi sta alla guida della Chiesa: Giacomo viene ucciso di spada e Pietro viene messo in prigione. Nell’Apocalisse questa duplice alleanza politico-religiosa viene rappresentata con l’immagine della “bestia”. La bestia “che sale dal mare” rappresenta il potere dell’impero romano e ogni altro potere che vuole dominare sull’uomo: «Allora tutta la terra, presa d’ammirazione, andò dietro alla bestia e gli uomini adorarono il drago perché aveva dato potere alla bestia e adorarono la bestia» (Ap 13,1.3-4). E poi c’è un’altra bestia: questa sale dalla terra e ha «due corna, simili a quelle di un agnello, ma parla come un drago». Questa bestia «seduce gli abitanti della terra, dicendo di erigere una statua alla bestia» (Ap 13,11.14): è il potere religioso. 
Ieri come oggi: ci sono dei poteri bestiali che dominano il mondo, incarnati nelle grandi potenze finanziarie, economiche e politiche, che in tutti i modi cercano di asservire anche la religione, facendola diventare ‘instrumentum regni’, parte organica del sistema di dominio globale. Ed è anche accaduto che il mondo della religione cercasse appoggio e sostegno tra le potenze che si sostituiscono a Dio. 
Quando Pietro viene messo in carcere erano “i giorni degli Azzimi”,  cioè i giorni in cui si faceva memoria della Pasqua, e per i cristiani la Pasqua è la celebrazione della vittoria di Cristo sul male, sul peccato e sulla morte. Pietro viene liberato dal carcere per la potenza del Risorto e perché «dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui» (At 12,5). Se vogliamo una Chiesa libera dai condizionamenti mondani, profetica, che non abbia paura di dire in faccia ai potenti le loro iniquità e denunciare le loro atrocità, se vogliamo una Chiesa che si ponga al servizio dei poveri e degli umiliati, che sia voce degli ultimi, dobbiamo affidarci incondizionatamente al Vangelo del crocifisso risorto e imparare a pregare “senza stancarsi mai” (Lc 18,1), fino alla fine. Solo allora, come afferma San Paolo, potremo dire: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7).

Cesarea di Filippo  è una città della Palestina situata sulle pendici meridionali dell’Hermon, presso le sorgenti del Giordano. Dotata per opera di Erode di un tempio dedicato ad Augusto, fu riedificata e sontuosamente abbellita  da Erode Filippo, tetrarca dell’Iturea e fu da lui chiamata Cesarea in onore di Tiberio Cesare. Fu un tempo un centro abitato prevalentemente da pagani e fu celebre per una grotta profonda dedicata al dio Pan (dalla quale scaturisce la sorgente principale del Giordano) e al suo corteo di ninfe e di satiri. Oggi il luogo si chiama Banyās. È significativo che, per la confessione messianica di Pietro, Gesù si sia spinto così al confine della Palestina, nel punto più distante da Gerusalemme. Ne ho capito il perché una volta, conducendo fin là un gruppo di pellegrini. 
Erode e Filippo, edificando la città di Cesarea, avevano voluto esaltare il potere universale  di Roma, accattivarsi la benevolenza dei grandi per poter ancora illudersi di contare qualcosa tra le gerarchie dell’impero. Uomini di paglia, accecati dall’orgoglio e dalla paura di perdere il loro piccolo potere. Anche oggi è lo stesso: ci sono decine di piccoli satrapi alla corte dei potenti. 
Il dio Pan, nella mitologia greca, è un dio mezzo uomo e mezzo capra, legato alle selve, alla pastorizia  e alla natura, associato anche alla fertilità e alla sessualità. Dunque in questa località si affermano due poteri senza regole e senza limiti: il potere politico e militare con tutti i suoi leccapiedi, e il potere di una sessualità trasgressiva e maschilista che dilaga senza freni. È in questo preciso contesto che Gesù chiede ai suoi: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». 


La risposta dei discepoli è sorprendente: assimilando Gesù al Battista, ad Elia o a Geremia, la gente intuisce, al di là dell’ammirazione per questo profeta di strada, che questo “Figlio dell’uomo” avrà un destino di sofferenza, come è capitato per tutti i profeti. Ma a questo punto Gesù interroga i discepoli sul loro personale coinvolgimento con il suo destino. L’esperienza dei discepoli non può limitarsi alla stessa considerazione di fede che la gente ha della sua persona. Risponde Pietro per tutti: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Il termine “Cristo” è la traduzione dell’antico  termine ebraico “Messia”, strettamente legato alla “regalità”, frutto di una investitura divina. Da Davide in poi tutti i re di Israele furono unti con l’olio dell’unzione per governare e guidare il popolo: alcuni furono re saggi, altri stolti, altri malvagi. Il profeta Isaia profetizza che, dalla stirpe Davide, sarebbe sorto in un futuro un re che avrebbe ristabilito la giustizia: «Egli sarà giudice fra le nazioni  e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 2,1-5). Alla fine del VI secolo a. C. il profeta Ezechiele, avverso alla monarchia, scriverà: «Susciterò un pastore che pascerà le mie pecore, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore» (Ez 34, 23). Pietro riconosce che Gesù è il Messia che deve venire, il Figlio del Dio vivente, il pastore che condurrà il popolo ai pascoli di vita. 


«Beato sei tu, Simone»: la beatitudine di Pietro non è quella di essere entrato in possesso di una sapienza “secondo la carne”, ma di aver ricevuto il dono di quella spontaneità intuitiva tipica dei piccoli, ai quali il Padre piace rivelare il suo mistero, che è il mistero del Figlio.
Per Matteo la Chiesa, fondata sulla confessione di fede di Pietro, è la dimora di Gesù, il pastore voluto da Dio, il nuovo tempio. Se il vero fondamento ecclesiale è Cristo, Pietro partecipa a questo compito: la sua fede  in Gesù Cristo sarà la “pietra” che darà unità e renderà saldo  tutto l’edificio.


In un contesto mondiale, nel quale dilagano come una devastante marea nera potenze distruttive ed emergono nuovi imperialismi e nazionalismi nefasti, dove l’uomo è negato nel suo stesso diritto all’esistenza in nome di una economia che uccide e di un potere idolatrico, il successore di Pietro, e tutta la Chiesa con lui, deve stringersi sempre più attorno a Gesù, Messia di pace, il profeta mite e umile di cuore, per garantire un futuro all’intera umanità. La bestia è già colpita a morte, al di là di quello che appare. Il Cristo del Vangelo, attraverso la sua vita donata fino alla fine, svuota tutti i poteri di questo mondo, rendendoli  inutili e insignificanti. 


Giorgio Scatto,
monaco a Marango 


“Che dice la gente che io sia?”. Ma non gli interessa quel che la gente dice. Gli interessa sapere chi è per loro, i discepoli. Gli interessa che si pronuncino di persona. “Ah, dicono che sei un profeta, Elia redivivo…”. Non sono granché coinvolti, danno informazioni, forse sono compiaciuti che il loro maestro sia considerato un grande. S’è detto anche di recente che è un rivoluzionario, un socialista, un giusto che ci ha rimesso di persona, come sempre succede.

“E tu chi dici che io sia?”. La domanda è diretta stavolta e non c’è modo di scansarla. Con te, Signore, bisogna pronunciarsi. Alla fine la fede sta o cade sulla riposta che si dà. ‘Anche tu, caro scribacchino, che dici che io sia, tu che riporti pensieri altrui e vai ripetendo le mie stesse parole, chi sono io per te?’. Non si scappa. Posso, possiamo rispondere prendendo tempo, per intenzione o per compiacenza o per timore di restare fuori, di non saperci ‘dei tuoi’, col cuore che non sta dietro la confessione di Pietro, pur desiderandolo.
Quella tua domanda ci prova, rivela la distanza che ci separa ancora da te e non possiamo più nascondercela. Pietro disse in un altro momento: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene”. Tu sai che il mio desiderio è comunque di volerti bene, che non ho pace, non mi do pace finché non sono una cosa sola con te. Gli basta: “Pasci le mie pecorelle”.


E altrove: “Date voi stessi da mangiare, non come dei camerieri ma come io do me stesso da mangiare”. Non è questo il senso dell’Eucarestia? “Chi si nutre di me vivrà per me”. Cioè, per dirla con franchezza: chi si nutre dell’Eucarestia diventa egli stesso Eucarestia. Non è questo essere cristiani? Così Gesù si propaga nella storia e prosegue la sua opera di salvezza attraverso chi si nutre di lui. Quale meraviglia? Non si chiedono la stessa cosa due innamorati: chi sono io per te? Si sa che c’è una sola risposta degna della domanda: tu sei tutto.

Valerio Febei e Rita

 

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