Briciole dalla mensa - 14° Domenica T.O. (anno C) - 6 luglio 2025
LETTURE
Is 66,10-14 Sal 65 Gal 6,14-18 Lc 10,1-12.17-20
COMMENTO
Oggi siamo in lutto per Gerusalemme, come quando nei lunghi giorni di esilio a Babilonia, i figli di Israele erano in lutto per la triste condizione della loro città, ridotta ad un cumulo di rovine dalla furia devastatrice dei Babilonesi. Ora sono i capi di Gerusalemme a devastare e distruggere la terra altrui, a uccidere per fame i bambini di Gaza, a massacrare il popolo palestinese che cerca disperatamente di difendere la propria terra, e coltivare il grano e l’olio per vivere. Ma nei Territori i coloni bruciano i campi di grano e sradicano gli ulivi. Sì, siamo in lutto per Gerusalemme, per i suoi delitti, come anche siamo in lutto ed eleviamo il nostro grido di dolore per la Palestina intera.
Nella prima Lettura della liturgia odierna, c’è però un versetto che ci fa sussultare di gioia : «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace» (Is 66,12). La pace che si riverserà su Gerusalemme e su tutta la Palestina sarà come un fiume in piena. La maledizione non è per sempre; il tempo del lutto e del pianto finiranno; la pace alzerà il suo vessillo in mezzo ai popoli. Ci sarà pace per la Palestina. Ci sarà pace per Gerusalemme, e tutti i popoli esulteranno di gioia. Bonhöeffer, negli anni bui nel nazismo e della seconda guerra mondiale, diceva: «Occorre osare la pace per fede». E l’autore della Lettera agli Ebrei scrive: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Eb 11,1). Per fede, noi continuiamo a sperare la pace.
Questo vessillo di pace, questo segno di una vittoria promessa, è la croce di Cristo, «per mezzo della quale il mondo è stato crocifisso» (Gal 6,14). Chi può sconfiggere l’orgoglio del male, l’arroganza dei prepotenti, la forza distruttiva delle armi, il veleno mortifero del denaro? «Non la potenza né la forza, ma lo Spirito di Dio» (Zac 4,6). E lo Spirito di Dio agisce nell’uomo Gesù, che ci ha amati fino all’obbrobrio e all’ignominia della croce. È il nostro unico vanto: non l’osservanza della legge, non la circoncisione, non le nostre opere. Accogliere la croce, credere nel nome di Gesù, è diventare creature nuove, figli di Dio (cfr. Gv 1,12-13). «Portare le stigmate di Gesù nel nostro corpo» (Gal 6,17) significa accettare di essere feriti dal dolore degli altri, diventare capaci di ascoltare il loro grido di aiuto, intercedere a loro favore, donare per loro anche la vita. «Su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia», dice san Paolo (Gal 6,16).
Per questo Gesù, nel Vangelo, «designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc 10,1). Settantadue sembravano essere i popoli del mondo, ai quali va annunziato il vangelo della pace. Ma come sono inviati i discepoli?
Vorrei fare qui una precisazione, che nasce dal testo. In questi ultimi anni si sente sempre più dire che la gente non viene più in chiesa, che il Covid ha dato il colpo di grazia ad una religiosità superficiale e devozionale, che è finito il tempo della ricerca di Dio e dell’appartenenza a una qualsiasi fede offerta sul mercato delle religioni. Il Vangelo afferma il contrario: dice che «la messe è abbondante» (Lc 10,2); quelli che scarseggiano invece sono gli operai, uomini e donne disposti a uscire dall’anonimato, a mettersi in gioco, a diventare protagonisti nella coltivazione del campo di Dio. Occorre pregare perché il Signore mandi operai: si poterebbe anche interpretare così: « Pregate che il Signore spinga fuori (ek-ballein) i timorosi, quelli che vogliono rimanere protetti in una religione di comodo, rubricista, quelli che dalla religione ci guadagnano, a scapito della povera gente». L’operaio deve stare sul campo, sulla strada, e sperimentare la forza del vento, la calura del sole, la pioggia che ti entra nelle ossa, e andare veloce, perché è rimasto ancora poco tempo. Non deve partire da solo, come accade oggi a molti preti che poi si smarriscono per strada, ma nella compagnia di un fratello, di una piccola comunità, perché il pellegrino che annuncia la pace è un testimone, perché il primo e più efficace annuncio è la carità, l’amore che si diffonde da sé quando, per via, ti prendi cura del debole, del malato, del povero.
Chi è inviato deve andare in mezzo ai lupi, come un agnello mite e umile. Non è una folle istigazione al martirio, un incitamento al suicidio, ma l’offerta di una missione assolutamente necessaria: riconciliare gli opposti, provocare al dialogo, mettere gli uni e gli altri nella condizione di ascoltarsi, di parlarsi, di fare un tratto di strada insieme, come fecero Francesco e il Sultano.
Chi se la sente, oggi, di fare questo? Sembra una missione impossibile, ma è esattamente il compito del discepolo. E ancora di più: egli deve andare senza «portare borsa, né sacca, né sandali», perché il successo della missione non dipende dai mezzi che mettiamo in campo, ma dalla umile testimonianza della vita, che annuncia un Dio che si è fatto povero e solidale. Per quanto riguarda il non salutare nessuno lungo la strada, si interpreta così: aver fisso il compito assegnato, non perdersi per strada in discorsi inutili, sentire tutta l’urgenza dell’annuncio. L’annuncio della pace non può aspettare: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”»; e fate opere di pace: prendetevi cura dei poveri, guarite, consolate.
È doveroso partecipare alle manifestazioni per la pace, nelle piazze e nei luoghi di conflitto, ma è più impegnativo e decisivo operare ogni giorno per la pace, diventare artigiani di pace, come sempre ci ricordava papa Francesco. Solo così saremo chiamati «figli di Dio» (Mt 5,9). Senza pretendere nulla, né conversioni né guadagni personali. Senza portar via niente, nemmeno la polvere che si è attaccata ai nostri piedi: una missione efficace si gioca sul versante dell’assoluta gratuità. Del resto chi è inviato è del tutto assicurato: «Vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi» (Lc 10,19). La vera gioia cristiana non risiede in manifestazioni di potere, nel successo della nostra pastorale, nella gratificazione per la riuscita delle nostre imprese, quanto piuttosto nell’appartenere pienamente alla comunità dei discepoli salvati dal Signore.
Giorgio Scatto
monaco a Marango
Monastero di Marango
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