Briciole dalla mensa - 29° Domenica T.O. (anno C) - 19 ottobre 2025
LETTURE
Es 17,8-13 Sal 120 2Tm 3,14-4,2 Lc 18,1-8
COMMENTO
“In quei giorni Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm”. Refidìm è il nome ebraico di un luogo biblico dove gli Israeliti si accamparono durante il viaggio verso il monte Sinai. Qui devono fronteggiare un attacco militare da parte degli Amaleciti, un fiero popolo nomade, vagante nel sud-est di Canaan, nel deserto del Negev e nella penisola settentrionale del Sinai.
Andando a vedere nel libro delle genealogie, sembra che Amalèk sia addirittura nipote di Esaù, padre degli Edomiti e quindi “parente” dei figli di Canaan. Il motivo di questo attacco rimane ignoto, anche se il racconto di Dt 25,17-19 lo spiega come una gravissima violazione delle leggi di fraternità del deserto, in quanto aveva attaccato un popolo sfinito e impossibilitato a difendersi.
“Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk»”. L’iniziativa parte da Mosè, che affida l’impresa a Giosuè, scelto come capo di un battaglione di Israeliti. Mosè sale sulla cima del colle “con in mano il bastone di Dio”. La menzione del “bastone” fa pensare che Mosè non si affida solo alle sue forze, ma che confida nel potere di Jhwh che aveva sconfitto gli egiziani. “Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk”. Il gesto delle mani alzate viene variamente interpretato come quello di una preghiera di intercessione, di un giuramento, di direzione della battaglia, di una benedizione/maledizione sui rispettivi contendenti. Al di là delle interpretazioni, il narratore ci fa capire che l’esito della battaglia dipende dalle mani di Mosè: quando le alza, Israele prevale, quando le fa “riposare” per la stanchezza, prevale Amalèk. Sostenuto dal prezioso aiuto di Aronne e Cur, le mani “pesanti” di Mosè rimangono ferme (‘emunah, fedeli) fino al tramonto del sole, permettendo a Giosuè di “fiaccare” Amalèk e di passare a fil di spada il suo esercito.
A questo punto Jhwh ordina a Mosè di registrare questo evento nel libro e di “metterlo negli orecchi” di Giosuè: il Signore cancellerà del tutto la memoria di Amalèk sotto il cielo: Mosè dirà allora: «Vi sarà guerra per il Signore contro Amalèk, di generazione in generazione» (Es 17,16).
Il 28 ottobre 2023, dando inizio a una guerra di sterminio contro Gaza, il primo ministro israeliano, Netanyahu, in una immensa operazione di strumentalizzazione del testo biblico, collettivamente accettata da Israele, giustifica il genocidio verso i Gazawi paragonando i palestinesi agli Amaleciti e gli israeliti agli attuali israeliani. Non solo il genocidio viene coperto politicamente dal “diritto all’autodifesa di Israele”, ma addirittura viene giustificato come continuazione della giustizia di Dio contro gli Amaleciti.
Il rabbino Ysrael Hess già nel 1980 scrisse un articolo intitolato “Genocidio: un comandamento della Torah”. Netanyahu ignora volutamente secoli di esegesi, strizzando l’occhio al sionismo ebraico, violento e disumanizzante, generando un processo di “denominazione” attraverso il quale l’antico nemico è stato associato con i nemici storici ed attuali del popolo ebraico.
Sorge allora una domanda: c’è un Dio che ama la guerra, che ordina addirittura lo sterminio di popoli interi “di generazione in generazione”? Nella Bibbia, accanto a dei testi che ci presentano un Dio decisamente guerriero ve ne sono abbondantemente altri in cui la sua immagine è quella di un Dio antimilitarista e pacifista. Allora la domanda trova la sua risposta nella sinfonia di queste varie voci, che si correggono e si completano. E a proposito di “stranieri”, Dio è colui che salva l’egiziana Agar, che agisce attraverso la madianita Zippora, è il «Dio del cielo» degli ebrei, degli egiziani, dei persiani. È il Dio che «farà cessare le guerre sino ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà con il fuoco gli scudi». Per il profeta Michea il Signore farà sì che «nessuna nazione impari più l’arte della guerra».
La via d’uscita per superare letture fondamentaliste, a supporto di ideologie aberranti e di altrettanto folli strumentalizzazioni politiche, c’è la preghiera. Le mani oranti di Mosè, che rimangono “ferme” fino al tramonto del sole, sono il vero segreto della vittoria di Israele, e incarnano la sua piena fiducia nell’opera potente del Signore che “rende giustizia agli oppressi e dà il cibo agli affamati” (Sal 146,7). Sì, abbiamo bisogno più che mai di ‘emunah’, di saldezza nella preghiera, per vincere ogni sorta di inimicizia.
Anche san Paolo, nella seconda Lettura ci esorta alla fedeltà: «Tu rimani saldo in quello che hai imparato». E ci consegna una Parola che non incita alla guerra e allo sterminio: «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia».
Il Vangelo ci presenta una parabola che narra la storia di due personaggi: “un giudice che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno” e una vedova, trattata ingiustamente, che si presenta davanti a questo giudice, disonesto e corrotto, per ottenere giustizia. È l’esempio tipico della gente povera e indifesa che riesce ad averla vinta a forza di insistere. «Le farò giustizia – dice il giudice – perché non venga continuamente a importunarmi».
La conclusione, offerta da Gesù stesso, è questa: se persino il cattivo giudice ha fatto giustizia alla vedova, di certo Dio farà altrettanto per i suoi eletti che “gridano giorno e notte verso di lui”. La vedova rappresenta la comunità credente in preda alle tribolazioni e alle prove: persecuzioni, guerre, privazione dei diritti, marginalità sociale. A coloro che si rivolgono al Signore senza scoraggiarsi, «senza disertare», come ha fatto Mosè sulla collina, tenendo le mani «ferme», Dio farà giustizia prontamente, senza tergiversare. È il Signore che opera la giustizia, non l’uomo con le sue azioni malvagie e violente. È la preghiera che mantiene il credente nella «fede», attento al futuro di Dio. Fede come esistenza del cristiano vissuta nella fedeltà e nella vigilanza. Il problema allora non è se Dio interverrà per ristabilire la giustizia, ma se il credente sarà pronto quando il Figlio dell’uomo verrà.
«Quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?».
Giorgio Scatto
La preghiera è il tratto che distingue il credente. Anzi, la preghiera esercita la fede, se la fede è già pensare Dio o, come si dice a volte: qualcuno che sta dove non vediamo. Parte con poco.
Per noi immersi nella modernità, la preghiera appare obsoleta; poi siamo adulti e l’autonomia ci connota: pregare è cosa di donnette. Pregano i bambini, finché vanno a catechismo. La piccola e la grande storia è nelle nostre mani. Del resto, popoli che professano la stessa religione non hanno remore di ammazzarsi a vicenda: le ragioni nazionali valgono più delle fedi. Dio, tutti possono pregarlo!
Un tale criticava i preti e i monaci: “I preti pure, ma i monaci a che servono? A biascicare litanie. Comoda la vita, eh?”. Il religioso gli rispose: “Se è comoda perché sono così pochi quelli che la scelgono?”. Va da sé che più volte negli ultimi secoli gli ordini contemplativi sono stati aboliti negli stati laicisti e massoni.
Gli americani, che fanno inchieste e statistiche su tutto, hanno osservato in vari studi che nei reparti ospedalieri i pazienti che pregano riacquistano la salute più degli altri.
Ma è certo che, oggi, chi proviene da una mentalità laica trova in sé molte resistenze ad accettare la logica (e la postura interiore) della preghiera. Implica un ritorno ai modi del bambino che sa di non essere in grado di bastare a se stesso. Diceva un prete che per stare in piedi occorre stare in ginocchio. Troppe cose non quadrano altrimenti. C’è bisogno di un padre, talmente altro da non essere espressione di proiezioni psicologiche soggettive. Le cose sono molto più serie.
A pregare si impara: pregando un passaggio è l’autocoscienza. E già un guadagno. La preghiera, in quanto prova di dialogo con Dio, è prototipo di rapporti con gli altri e si traduce in nuove modalità espressive. Ed è un secondo vantaggio.
Per dirne un’altra: si impara a riconoscere la presenza di un Dio che è Padre e a vivere in fiducia. Se l’ansia è il male del secolo, essa è dovuta alla percezione di una solitudine ‘ontologica’ sotto un cielo privo di stelle. I poeti ne parlano più o meno così: “Io non so perché sono al mondo, cosa sia da ricercare, quale sia il bene qui ed ora e come lo si faccia. Non so a cosa tenda il giorno, perché il sole sorga e tramonti. Non so cosa sia il tempo e perché consumandosi consuma tutte le cose. Desidero la felicità e come cerco di afferrarla mi sfugge di mano…”. Pascal, Leopardi…
Gesù esorta a pregare senza cessare. Anche mentre si è nelle faccende si può tenere il cuore in parte con Dio. Perché? Quelli che praticano la preghiera sono soliti rivolgersi a Dio nelle necessità. Anche il Vangelo della vedova e del giudice ingiusto ne parla. Quella preghiera raggiunge il risultato, se non altro perché scoccia anche il Padre eterno. Molte volte abbiamo esperienza che Dio non ascolta e pregare non serve. Dice Gesù che il Padre ascolta sempre e risponde come e quando è meglio per il richiedente. Il suo silenzio per noi è prova, occasione di crescita nella coscienza di cosa ci sia bisogno, delle priorità, nell’umiltà e nella conoscenza dell’amore di Gesù per noi.
“Quanto più il Padre vostro darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono”. C’è qualcos’altro che vale di più del frigo pieno. “Maria si è presa la parte migliore”. Anche il decimo lebbroso che tornò a far festa fu ‘salvato’.
La meta ultima della preghiera è la salvezza più che la guarigione. Gesù vuole sottrarci all'egemonia dell’ego, centrale nella fisica del nostro mondo. L’io è costituito da esperienze pregresse di un ambiente, di una cultura, di un’epoca. Non è l’uomo la misura di tutte le cose, come affermavano esultanti i Rinascimentali. Non è nel loro, nostro, giudizio la misura della carità e della giustizia talché abbiamo poca fede. Gesù stesso ci esorta a distaccarcene e offre sé stesso come nostra vera identità. A questo tende l’invito a rinnegare sé stessi e a nutrirsi di lui. La preghiera opera il riconoscimento che la misura dell’amore è Cristo e ce ne fa innamorare. Nella preghiera vediamo come in contemplazione, ancora da lontano, che noi non ‘siamo’ se non nella misura che siamo come Dio. Coraggio allora e, come suggeriva san Paolo: gambe in spalla.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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