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Uno straniero riconoscente

Briciole dalla mensa - 28° Domenica T.O. (anno C) - 12 ottobre 2025

 

LETTURE

2Re 5,14-17   Sal 97   2Tm 2,8-13   Lc 17,11-19

 

COMMENTO

 

Il Vangelo di oggi ci narra la storia di uno straniero riconoscente. Gesù guarisce dieci lebbrosi, ma uno solo dimostra gratitudine: era un samaritano. Questi, vedendosi guarito lungo la strada, torna da Gesù, mentre per gli altri nove - che erano giudei - il miracolo non è stato accolto come un evento salvifico. Fino al v. 14 la narrazione obbedisce alla struttura normale di un racconto di miracolo, mentre i versetti seguenti mostrano elementi che riflettono questioni dibattute nelle comunità alle quali si rivolgeva l’autore del testo. Sempre, anche oggi, il Vangelo è annuncio di Gesù Cristo dentro ad una storia particolare, che varia nel tempo e nello spazio. Il Vangelo è lo stesso, ma cambiano i destinatari e i contesti geografici, culturali, sociali ai quali è diretto. Nella Chiesa è sempre importante sottolineare la risposta dell’uomo al dono di Dio, e il racconto di Luca assume il tono di una esortazione alla gratitudine.

 

Non manca neanche l’interesse per i samaritani, già emerso in altri racconti: il samaritano riconoscente può essere visto come un simbolo dell’annuncio della fede accolta dai pagani, con una visione ottimistica, nella quale non manca una polemica antigiudaica.
Luca ha visto il legame simbolico tra il racconto del samaritano riconoscente e l’episodio della guarigione di Naamàn, il comandante siriano dell’esercito del re di Aram (2Re 5,14-17). Non c’è qui una dipendenza letteraria tra i due racconti, ma Luca ne parla esplicitamente nel discorso inaugurale di Gesù a Nazareth (Lc 4,27): anche Naamàn è straniero e lebbroso; anche nel racconto che leggiamo in 2Re 5,1-19 il miracolo è compiuto a distanza e il guarito torna dall’uomo di Dio per ingraziare: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele».

 

Il brano del Vangelo che ci viene proposto introduce, secondo molti esegeti, la terza e ultima sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme: “Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea”. Sarebbe meglio tradurre: “Passava lungo la frontiera tra la Samaria e la Galilea”, altrimenti non si capisce la direzione del viaggio; venendo da nord, si incontra prima la Galilea, poi la Samaria e poi ancora la Giudea, dove si trova Gerusalemme. Ma è inutile cercare sulla carta geografica dove si trovi Gesù e come mai egli avanzasse verso Gerusalemme indietreggiando! Per Luca, che non è mai stato in Palestina e quindi non conosce i luoghi, si trattava di trovare un posto adatto dove potesse avvenire l’incontro del Signore con un gruppo di lebbrosi, composto da Giudei e da un samaritano. Storicamente l’episodio poteva aver luogo in Galilea; di certo, non a Gerusalemme e difficilmente nei suoi dintorni.

 

“Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi”. Gli affetti da lebbra potevano abitare in luoghi appartati nei pressi dei villaggi, ma non a Gerusalemme e nelle altre città cinte da mura. Secondo la prescrizione di Lv 13,45 i lebbrosi dovevano tenersi “a distanza” non solo per motivi igienico-sanitari, ma soprattutto per motivi religiosi, essendo dichiarati impuri. La malattia era considerata conseguenza di un grave peccato, e il peccatore doveva essere allontanato non solo dalla società, ma anche dalla comunità religiosa: neppure Dio lo voleva più vedere intorno! Andando incontro a Gesù i dieci lebbrosi alzano la voce. La Legge prescriveva che essi dovevano gridare: «Immondo! Immondo! Immondo!», per tenere lontana la gente al loro passaggio, ma il loro grido diventa una preghiera: è l’invocazione del Nome: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Gesù viene chiamato con il titolo di «maestro», nel senso di capo di cui si riconosce l’autorità. Così lo chiamano sempre i discepoli nel vangelo di Luca.
Gesù inizia con loro un dialogo. Contrariamente al racconto di Lc 5,13 Gesù non guarisce i lebbrosi prima di mandarli dai sacerdoti, ma dà l’ordine di mostrarsi ad essi. Secondo la Legge era necessario che il lebbroso andasse dal sacerdote del proprio villaggio, che doveva verificare l’eventuale avvenuta guarigione. Per il guarito significava la reintegrazione nella comunità civile e religiosa. Come per il siriano Naamàn il miracolo avviene a distanza: «E mentre essi andavano, furono purificati». La notizia della guarigione (purificazione) è sobria: sembra che l’evangelista ci voglia dire che è l’obbedienza alla parola di Gesù che ottiene il miracolo.

 

La seconda parte del racconto si apre con il ritorno di uno di loro per ringraziare, come aveva fatto Naamàn. Luca però non rivela subito di chi si tratta: «uno di loro»; egli prepara la sorpresa, mettendo prima in luce la fede dello sconosciuto. Egli vede la sua guarigione: un vedere interiore che implica l’apertura alla fede: “tornò indietro lodando Dio a gran voce”. Il guarito rende gloria a Dio e si prostra davanti a Gesù, per ringraziarlo: sono due atteggiamenti inseparabili. Dio si lascia incontrare nella umanità di Gesù.
“Era un samaritano!”. È verosimile che i lebbrosi ebrei e samaritani convivessero, dato che entrambi erano rifiutati dai loro villaggi e, a causa della malattia, perdevano la loro identità sociale e religiosa. Forse gli altri, che erano certamente giudei, si erano messi in cammino verso il tempio di Gerusalemme per offrire il sacrificio prescritto. Per il samaritano la “via” conduce a Gesù.

 

Gesù risponde ponendo tre domande: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». La prima domanda dichiara che tutti hanno beneficiato della guarigione. La seconda esprime il rammarico per l’assenza di nove su dieci dei guariti. La terza esplicita ciò che tutti avrebbero dovuto fare: tornare indietro a rendere gloria a Dio. Non basta la guarigione: essa avrebbe dovuto essere l’inizio e il segno di una vita nuova. Sì, perché i doni ricevuti da Dio richiedono la nostra riconoscente risposta. Sottolineando che il samaritano era uno «straniero» l’evangelista vuole anche affermare che quelli che erano considerati “lontani” ed esclusi dalla salvezza si aprono all’Evangelo, a differenza di coloro che si consideravano il «popolo eletto».

 

«Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato». La formula, che risale probabilmente a Gesù, vuol dire questo: è la fede che salva, non importa se il credente appartenga al popolo di Israele o alle nazioni pagane. La fede che, percependo nella guarigione un invito, va verso il donatore ed entra in rapporto con Gesù, questa è la fede che salva; la liberazione dal male fisico e l’integrazione nella comunità umana ne sono un segno.

 

Giorgio Scatto
monastero di Marango
giorgio.scatto@gmail.com

 

 

Vistosi guarito, Naaman è riconoscente verso il profeta, vuole ripagarlo. Giusto, naturale manifestare la gratitudine per un beneficio ricevuto. Ma niente doni, specie se di valore, tanto più che un miracolo così è impagabile.
Pensare che oggi c’è gente che getta via capitali in guaritori, maghi e venditori di fumo. Eppure oggi, epoca post illuministica, laddove tutto si spiega o si spiegherà quando la ragione ne avrà i mezzi, i miracoli non esistono, sono fenomeni di invasati, dovuti a qualcosa che domani si vedrà. La scienza è divina, come la dea ragione nel pantheon giacobino. Miracoli? Religioni? Miti e superstizioni. Tutto quel che riguarda Gesù e la rivelazione è un falso problema. Occupiamoci di cose ‘reali’!

 

Per quanto ci spiaccia siamo figli anche di questa cultura, ma in grado, con un atto di libertà interiore, di riconoscere l’ordinario e lo straordinario e come l’uno e l’altro sono intrecciati fra loro. Il sole che sorge stamani è l’uno e l’altro. I miracoli ci sono invece e sono cose, corpi, materia che obbedisce alla parola dei profeti o dei santi. Tanto più accade quanto il profeta ‘è’ la sua parola. La parola di Gesù ha il massimo della efficienza, fa quel che dice. Noi siamo generalmente parolai. Che cosa fa sì che gli oggetti di materia, e non solo, obbediscano al richiamo dei santi? È l’obbedienza dei santi. La fede – obbedienza.
Anche noi pregando possiamo fare ‘miracoli’, credendo alle nostre parole di preghiera, se ci viene concesso di credere a quel che diciamo ‘per Cristo nostro Signore’. Tanto più siamo obbedienti le cose ci obbediscono. Fare la Parola ci abilita ai miracoli. Il Vangelo è chiaro. Oggi c’è poca fede in giro e una sottile incredulità si insinua negli stessi che parlano di religione. Figurarsi! Ma chi sa che tutto parte dall’obbedienza affronta il tema con più cognizione di causa e sa di che parla.
Si può fare a meno, scegliere di non tenere in alcun conto miracoli, religioni, e accettare la pura materialità. Ma è sempre una posizione mentale che lascia fuori indagine la profondità dell’essere. Eppoi c’è il cuore che tira, il pianto a volte e lo stupore. Fin qui la fede come obbedienza.

 

Il Vangelo di domenica aggiunge la gratitudine di cui era pieno il cuore di Naaman. Se il profeta ne avesse accettato i regali egli non si sarebbe convertito al Dio di Israele, ormai il suo solo Dio tanto che non lo adorerà se non su terra di Israele quanta ne può caricare sul carro. Se avesse ripagato il beneficio in solido avrebbe sentito di soddisfare il ‘debito’. Quel vuoto, l’impagabilità della guarigione, lo apre a maggiore, perfetta, spiazzante riconoscenza: alla conversione.

 

Tutti e dieci i lebbrosi ebbero fede nella ‘dabar’, la parola di Gesù, tutti si avviarono alla sinagoga per essere riammessi nella comunità una volta certificata la guarigione e non erano ancora stati guariti. Ebbero fede pur non vedendo, che è una gran cosa. Volendo, basta per avere una dritta su cosa sia aver fede in ciò che si chiede e sulla insistenza a pregare. L’uomo è la sua parola! Tutti partirono e ‘per strada’ avvenne il miracolo. Mettersi in cammino è la parte che ci compete. Il miracolo non avviene seduta stante, ma in viaggio. La speranza, che è parte nostra, concorre all’opera. Poi la gratitudine che in uno solo è tale da sospendere l’obbedienza superata dalla festa e dalla gioia esultante davanti al volto del Salvatore.

 

A dir poco, il Vangelo, il rapporto che la gente ha con Gesù, è il prototipo delle nostre relazioni. Dire grazie in verità di cuore, anche per poco, stabilisce i rapporti nella rettitudine. Nulla ci è dovuto. Pensiamo alle relazioni familiari. Poi ci sono i doni più grandi, laddove è più grande la vicinanza alla Verità. A Gesù: serrare su di lui vale più dei gesti di obbedienza.
Ogni volta che uno si converte porta con sé il passato, il suo ambiente, la mentalità…, il mondo si converte. Quanto alla nostra riconoscenza quale che sia, quell’uno su dieci, forse diecimila, porta anche noi con sé. Ci possiamo contare.

 

Valerio Febei e Rita

 

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