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L’inutilità di vivere come servi

Briciole dalla mensa - 27° Domenica T.O. (anno C) - 5 ottobre 2025

 

LETTURE

Ab 1,2-3;2,2-4   Sal 94   2Tm 1,6-8.13-14   Lc 17,5-10

 

COMMENTO

 

Nel piccolo libro che porta il suo nome, Abacuc almeno due volte è definito nābî, profeta. Nient’altro ci viene detto di lui: non l’epoca in cui visse, non il luogo da cui proveniva o il lavoro che svolgeva. È uno dei profeti di cui sappiamo meno. È però interessante notare che la collocazione di Abacuc, dopo Naum e prima di Sofonia, sembra richiamare un tempo particolarmente difficile della storia di Giuda, compreso tra la caduta di Ninive nel 612 e la prima deportazione in Babilonia nel 598.
Nel libro è molto forte l’angoscia a causa dell’oppressione di un potere straniero, che chiama direttamente in causa Dio stesso: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?». Con la stessa forza, che sembra sfidare Dio, si esprime ogni giorno, fin dal tragico 7 ottobre 2023, il vecchio patriarca di Gerusalemme, il palestinese Michel Sabbah: «Il sangue dei tuoi figli, da tutta Gaza e da tutta la Palestina, da tutta la regione, grida a te, Signore: ferma Caino e ritorni l’umanità! Signore, hai visto fino a dove può arrivare la crudeltà degli uomini? Guardano arrivare da lontano le folle disperate e come ad animali in gabbia dicono loro: correte là e per i primi che arrivano forse ci sarà qualcosa da mangiare. Loro sparano sugli affamati. E tanti li uccidono. Tu fermali, Signore! Le senti, Signore, le nostre grida? Rispondi presto. Abbi pietà!».

 

Sembra però che Dio non ascolti, e non voglia far nulla per Gaza. Mi torna alla mente la preghiera di Etty Hillesum, giovane ebrea morta nei campi di concentramento di Auschwitz : «Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio, con gli occhi che mi bruciavano, e davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me. L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzetto di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa fare molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle mani di nessuno se si è nelle tue braccia: comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio» (Etty Hillesum, Diario1941-1943, Adelphi, pp. 169-170).

 

A culmine della tragedia, quando sembra che nulla possa ancora accadere di buono, Dio dice al profeta: Scrivi la visione e incidila bene su tavolette. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la fede». Cosa vuol dire che «il giusto vivrà per la fede?». Il testo ebraico recita: «Il giusto vivrà per la sua fede» e la traduzione greca della LXX: «Il giusto per la mia fede vivrà». Mentre il testo ebraico (TM) mette l’accento sulla fedeltà dell’uomo, la versione greca sottolinea invece quella che Dio mantiene nei confronti del giusto. In un mondo dove «non ha più forza la legge né mai si afferma il diritto», Dio risponde al lamento del profeta affermando, senza paura di essere smentito, che chi obbedisce al Signore e confida in Lui, vivrà.
Di che cosa vivrà questo «giusto»? Della sua ěmȗnāh, un termine abitualmente tradotto con «fede» che ha in realtà un senso più ampio, che definisce una relazione interpersonale corretta, caratterizzata da fedeltà, onestà, fiducia. È, come scriveva Etty Hillesum, “non scacciare Dio dal  proprio territorio”, anche all’interno di un contesto ostile e minaccioso. Questa fedeltà contribuisce a «disseppellire Dio dai cuori devastati di altri uomini».

 

«Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili: Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». Conosciamo la spiegazione canonica di questa parabola: ogni idea di meritare il premio finale va esclusa; il debito rappresentato dal peccato (cfr. Mt 6,12) è inestinguibile. Dio solo può “rimettere” questo debito; nessuna opera e neppure la più perfetta obbedienza potrebbe ottenerlo. Ogni “diritto” da parte dell’uomo va assolutamente respinto. I bambini, che nulla hanno “fatto” sono immagine del Regno infinitamente più del servo che ha svolto il proprio lavoro fino al termine della propria giornata.
In una sua interpretazione del Vangelo di questa domenica il filosofo Massimo Cacciari afferma di non essere soddisfatto di una spiegazione così dura (M. Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi 2004, p. 324). Allora cerchiamo di capire meglio. San Tommaso interpreta così: la perfezione della fede consiste proprio in ciò – nel riconoscersi ancora imperfetti anche quando tutti i præcepta sono stati osservati. Ma imperfetti non significa inutili!
E san Paolo si chiede: «Qual’è la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo» (1Cor 9,16). La predicazione della Buona Novella è insufficiente per ottenere la giustificazione, ma non si dice che sia del tutto inutile. Allora occorre dire che inutili non sono le opere. Inutile è il servire stesso quando il servire rimane confitto nella dimensione del dare il dovuto, del dare ciò che è richiesto, per essere poi debitamente remunerati. Paolo invece predica gratuitamente, senza attendersi nulla in cambio del suo fare generoso e instancabile. Gesù “depone” liberamente la sua vita. Perché? Perché vive come Figlio e non come servo. Invece, chi è servo rappresenta il diritto della Legge, che stabilisce le norme del giusto scambio, e che nulla dona gratuitamente. Servire perché il padrone ci premi non è soltanto estraneo alla gratuità del dono, è inutile. L’apparizione del Figlio annuncia che siamo stati lasciati all’ascolto della legge dell’amore, mentre il servo è incapace di stare senza il comandamento. E rimarrà sempre servo. È del tutto inutile vivere come servi, perché il dono della libertà ci porta a non avere che Dio, che libera da tutti i padroni.

Il figlio non spera di ereditare beni, cose, non spera di avere degli utili per sé, perché riconosce che il proprio tesoro non consiste in niente altro che nel poter far dono di ciò che lui stesso ha ricevuto: l’amore gratuito del Padre. «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza».
Custodiamo «mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ci è stato affidato».

 

Giorgio Scatto

monastero di Marango

giorgio.scatto@gmail.com

www.monasteromarango.it

 

Abacuc, a parte il nome fuori dal comune, dice quel anche di questi tempi che a molti capita di dire. Non vedi, Dio, come siamo messi? Il mondo va a rotoli, non vedi la piega che han preso gli eventi? La violenza è diventata la norma, i soprusi degli arroganti… Che fai? Non te ne importa? Fino a quando?
Quante volte nella storia si sono dette queste parole volgendo gli occhi al cielo. Quante volte oggi la gente sensata le dice, più o meno convinta che vadano oltre la parete del visibile! La Chiesa riprende l’angoscia di Abacuc di fronte alla turpe logica della guerra che i capi dei governi ritengono ormai prossima e ventura. Un papa dopo l’altro incita a pregare e digiunare. Gli uomini non sono ancora capaci di saggezza. Al tipo che è a capo dell’Occidente non pare vero di umiliare l’Onu, quando è il primo a boicottarne le delibere! Quanto è reale la Bibbia!

 

Scrivi: anche se tardo tu attendimi e farò giustizia fra chi è retto e chi no. 
Tu, dice Paolo a Timoteo, resta fedele al dono ricevuto, che è anche un mandato, ché i doni sono un bene per tutti. Pasci il mio gregge dice Gesù a Pietro, il quale nella sua prima Lettera riproduce il mandato agli anziani: pascete chi vi è stato affidato, di buon cuore, facendovi modelli del gregge. L’anzianità non è una questione di anni ma di responsabilità. Nei nostri rapporti per lo più vige la regola della reciprocità, ma non è questo, non funziona. Non c’è modo migliore, non c’è altro modo per ‘influire’ sugli altri che facendosi modelli di vita.
È un cammino.

 

Come è un cammino anche la fede. Signore, accresci in noi la fede. Erano i più vicini a Gesù a chiederlo. Ogni tanto qualcuno di loro vede chiaro: Pietro, Natanaele… Noi siamo per via, facendo continue mediazioni tra il Dio totale, la fede quindi e la presa che abbiamo su di noi e sulla realtà come a noi pare e piace. O come ci è stata inculcata con la paura.
Ma le parole di Gesù sembrano dire che non c’è spazio per mediazioni. O tutto o niente. La sua risposta, come altre volte, non entra nel merito, ma spiega cos’è la fede, cosa comporta. Sembra dire: smettetela di essere voi a capo di voi stessi e delle vostre cose. La fede o la si ha o non la si ha, basta poco e quel poco è tutto.

 

In questo senso la fede è obbedienza: tu solo sei il mio Signore. E segue l’altro esempio del credente che serve, né fa titolo di credito il suo servire: servo inutile. Le cose che fa non sono merito suo. Gli viene una consolazione, certo, ma d’essere consolato e non di autocompiacersi. Dice san Paolo: non vergognarti di confessare Cristo, come accade a chi voglia servire due padroni: Dio e il mondo.
È un cammino, comunque. Leggiamo e rileggiamo le stesse parole, lo stesso Vangelo cento volte, finché un giorno il senso per noi si apre ed entra la luce, d’improvviso. È così anche per la fede.

 

Valerio Febei e Rita

 

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