Briciole dalla mensa - Festa di tutti i Santi - 1 novembre 2025
LETTURE
Ap 7,2-4.9-14 Sal 23 1Gv 3,1-3 Mt 5,1-12
COMMENTO
L’Apocalisse di Giovanni, comunemente conosciuta come Apocalisse o Rivelazione o Libro della Rivelazione, è l’ultimo libro del Nuovo Testamento ed è una delle apocalissi presenti nel canone della Bibbia, di cui costituisce uno dei testi più difficili da interpretare.
L’Apocalisse appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come “letteratura giovannea”, in quanto scritta, se non dallo stesso apostolo, nei circoli che a lui e al suo insegnamento facevano riferimento. È il Libro della speranza cristiana che si fonda sulla certezza della vittoria di Cristo - crocifisso e risorto – sul male e sulla morte. Il libro incoraggia i credenti a rimanere fedeli a Dio e a testimoniare la loro fede nonostante le avversità e le persecuzioni. Possiamo dire che l’Apocalisse è un documento di fede e di resistenza contro ogni sorta di male, nella certezza della vittoria finale.
Il capitolo 7 dell’Apocalisse, dal quale è tratto il brano che leggiamo in questa solennità di tutti i Santi, risponde ad una domanda che riveste i caratteri di una evidente e drammatica attualità. Di fronte alle catastrofi del nostro tempo, alla devastante realtà della guerra, ai disastri provocati dai cambiamenti climatici, all’apostasia silenziosa di milioni di persone dalla fede, ci sarà ancora salvezza per l’uomo? E che cosa resta di quest’uomo, che ha perso ogni coscienza di sé, ha smarrito la propria identità, travolto dalle cose e dagli idoli che ha da sempre cercato e venerato, come il denaro, il potere, l’apparire? Il capitolo 6 si chiudeva infatti con una triste profezia: «Allora i re della terra e i grandi, coloro che comandano, i ricchi e i potenti e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: “Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il grande giorno della loro ira, e chi può resistervi?”». A questa domanda, appunto, risponde il capitolo 7.
Il brano ci offre dapprima la visione di angeli che, stando ai quattro angoli della terra, trattengono i venti, impedendo di scatenare la loro furia selvaggia e distruttiva. C’è poi un altro angelo che sale da oriente, da dove viene il re-messia. Tiene in mano «il sigillo del Dio vivente» con il quale dovrà segnare la fronte dei «servi del nostro Dio» - cioè i cristiani - con il ‘Tau’, simile alla croce di Cristo. Questi uomini non sfuggono alle prove e alle persecuzioni, che li condurrà fino al martirio, ma anche allora non verranno abbandonati: Cristo è con loro e li custodirà perché, a differenza degli «abitanti della terra», essi appartengono al mondo di Dio. Questo segno rimanda al battesimo: colui che è diventato cristiano appartiene a Cristo che pone su di lui il suo sigillo (sphragìs).
«E udii il numero di quelli che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila». È evidentemente un numero simbolico: è il quadrato di dodici - il numero sacro - moltiplicato per mille. Dodici sono anche le tribù di Israele, ma per il nostro autore il vero popolo di Dio è il popolo cristiano: con il battesimo i cristiani sono diventati popolo sacerdotale, che appartiene a Dio. Essi provengono «da ogni tribù dei figli di Israele».
C’è poi una moltitudine immensa, proveniente da ogni luogo, che ha affrontato vittoriosamente la prova. Non è un altro popolo, ma è un altro modo per dire che il popolo cristiano, composto da giudei e pagani, realizza la promessa fatta ad Abramo che sarebbe diventato padre di una discendenza più numerosa delle stelle del cielo e della sabbia del mare. È una nazione che proviene «da ogni nazione, tribù, popolo e lingua».
«Tutti stavano in piedi davanti al trono». È un’affermazione di fondamentale importanza: per la prima volta nell’Apocalisse si dice che l’uomo è introdotto là dove si svolge il culto celeste. Queste persone portano vesti candide, come segno di una salvezza già accordata con il battesimo, e hanno delle palme nelle mani, forse un richiamo alla festa delle Capanne, che celebrava l’uscita dall’Egitto. Ora, nella celebrazione del culto celeste, questo esodo giunge al suo termine, e segna l’uscita definitiva dalla schiavitù del peccato e della morte. Una interpretazione suggestiva, ma non attestata in modo indiscutibile dagli esegeti. Diciamo allora che queste persone sono dei vincitori: per questo hanno in mano la palma.
«E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». Questa vittoria - che è chiamata anche salvezza - si realizza quando gli uomini danno all’amore di Cristo la preminenza sull’amore di se stessi: è la vittoria dei martiri «che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello»; è la vittoria del Cristo pasquale.
Nella seconda Lettura, san Giovanni afferma che, a motivo della pasqua di Gesù, «noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato». Dio è amore e un tale Dio non può rimanere statico, come non lo possono essere i suoi figli. I cristiani sono già simili a Dio in quanto egli ha manifestato se stesso nel Figlio suo; la rivelazione finale renderà possibile ai cristiani di essere simili a Dio visto «così come egli è in sé».
Solo un cenno al vangelo di Matteo, che ci parla delle “beatitudini”. Gesù si rivolge alla folle e ai discepoli con un’autorità che stupisce: presenta le esigenze di una vita filiale e fraterna, portando a pienezza il precetto della Legge. Il “discorso della montagna” risponde ad una preoccupazione propria di Matteo che mette in parallelo la predicazione di Gesù con le “dieci parole” ricevute da Mosè sul Sinai.
Luca e Marco invece collegano la “montagna” alla chiamata dei Dodici; così, in Luca, Gesù, dopo aver passato la notte in orazione sulla montagna, si sceglie i dodici apostoli; disceso con essi si ferma in un «luogo pianeggiante» e inizia un discorso dove quattro “beatitudini” sono seguite da altrettante “maledizioni” (Lc 6,12-26). In Matteo le “beatitudini” invece sono otto.
«Beati»: è la traduzione di una parola greca, makàrios, che a sua volta traduce il termine ebraico ashrē, che potemmo rendere con “prosperità, felicità”. Le “beatutudini” sono solo la parte iniziale di un lunga sezione del vangelo di Matteo (Mt 4,23-9,38) nella quale dapprima l’evangelista ci narra la predicazione di Gesù in ordine alla Legge e poi ci presenta la sua opera di guarigione: «Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e infermità nel popolo» (Mt 4,23). La chiave per comprendere le “beatitudini” è leggerle attraverso la vita di Gesù: è Lui il povero in spirito, colui che piange per la sorte di Gerusalemme, che non usa mai la violenza per farsi strada, che ha fame e sete della giustizia divina; è lui il messia ricco di misericordia, il puro di cuore - cioè senza doppiezza - l’artigiano di pace; è lui che viene perseguitato a causa della giustizia, giudicato, messo a morte come un malfattore, senza mai venir meno al progetto del Regno. Di Lui il Padre si compiace e lo dichiara “beato”. Su questa via Gesù ci insegna a trovare la felicità che cerchiamo, quella che è “per sempre”.
Non è difficile pensare che la parola del Vangelo è davvero rivoluzionaria e del tutto opposta alla logica di questo mondo.
Giorgio Scatto
Il seguente commento fa riferimento alle Letture previste per la Commemorazione dei fedeli defunti:
Un tale è passato da un suo amico rimproverandolo di non aver risposto alle sue chiamate ed era convinto che avesse bloccato il suo numero, senza evidente motivo. “No, l’altro diceva, il tuo numero non è bloccato, vedi?” e gli mostrava il telefono. Ma lui insisteva: “Non è possibile, perché allora appena ti chiamo la linea cade?”. Era un boomer, ci sta. Ma fra boomers ci si dovrebbe intendere. Gli fa l’amico, provando ad andare al sodo: “Caro mio, vengono prima le nostre persone di questi aggeggi malfunzionanti. Ti fidi più di me o di essi?”.
Penso che quel tale porti, inconsapevolmente, un giudizio pesante di sé che in situazioni ambigue rilegge a proprio riguardo nei comportamenti altrui. “Tu mi hai bloccato!”. Così anche un rapporto collaudato non è sufficiente, non passa la prova del sospetto che scaturisce da un giudizio severo se non impietoso per cui non si è mai meritevoli della benevolenza o della sincerità altrui. Per quanto, a volte la si pretenda. Ci si aspetta, temendoli, gesti confacenti a quel giudizio. Se aggiungiamo le volte in cui veniamo bloccati per davvero la nostra fiducia vacilla. “Con la misura con la quale misurate…” misurate voi stessi. Si può dire anche così.
Eppure la Chiesa continua a dire che qualcuno ha cura di noi, è attento alle nostre parole, ci vuole bene, non tradisce, non viene meno… San Paolo spiega: “A stento si trova chi è disponibile a morire per una persona dabbene, ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. Qualcuno ci ama e questo ci spiazza, ribalta il sistema delle convinzioni.
È giocoforza che la fede incorra nelle prove, quelle dei pensieri inutili e dannosi e quelle inevitabili della vita. Chi più di Giobbe ne è testimone? Il santo della pazienza, si dice, o piuttosto è il santo della fede? Qui lo dico e qui lo nego, tale è il mio timore di fronte alle prove di Giobbe: ma egli dimostra che la sofferenza affina lo sguardo e rende sottile il muro d’ombra che ci separa dall’invisibile tanto da lasciare intravedere Dio di là. “Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”. E non un altro, proprio io e proprio lui. Vengono i brividi.
“Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che sarà vicino dirà: è morto. In realtà è una bugia. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma in realtà la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa terra mi apro all'infinito di Dio. Noi lo vedremo, come ci dice Paolo, faccia a faccia, così come Egli è (1Cor 13,12). E si attuerà quella parola che la sapienza dice al capitolo 3: Dio ha creato l'uomo immortale, per l'immortalità, secondo la sua natura l'ha creato. Dentro di noi, quindi, c'è già l'immortalità, per cui la morte non è altro che lo sbocciare per sempre della mia identità, del mio essere con Dio. La morte è il momento dell'abbraccio col Padre, atteso intensamente nel cuore di ogni uomo, nel cuore di ogni creatura”. Un testo ispirato dalla profezia.
Don Oreste Benzi, servo di Dio, scrisse queste parole alcuni mesi prima che venissero pubblicate nel libretto ‘Pane quotidiano’ a commento del vangelo del 2 novembre 2007. Egli morì, o “aprì gli occhi all’infinito di Dio” nelle prime ore del 2 novembre di quell’anno.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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