Briciole dalla mensa - 30° Domenica T.O. (anno C) - 26 ottobre 2025
LETTURE
Sir 35,15-17.20-22 Sal 33 2Tm 4,6-8.16-18 Lc 18,9-14
COMMENTO
Il libro del Siracide, o Sapienza di Sirac, contiene l’insegnamento di un saggio di Gerusalemme chiamato oggi comunemente Ben Sira. Nella tradizione latina il libro viene chiamato Ecclesiastico, cioè libro adatto alla lettura nell’ assemblea dei fedeli. Un anonimo nipote di Ben Sira tradusse il libro ad Alessandria d’Egitto, grande centro di cultura pagana, ma anche di cultura giudeo-ellenistica, e sede di un’importante comunità giudaica fuori della Palestina. Il libro fu scritto in ebraico tra il 190 e il 175 a.C., mentre la traduzione greca può essere datata verso il 130 a.C. Verso la fine del I secolo d.C. gli scribi della corrente dei farisei, che avevano assunto la guida della comunità ebraica a Gerusalemme, esclusero il Siracide dal numero dei libri ispirati. Da allora fa parte dei libri detti deuterocanonici, assieme a Tobia, Giuditta, 1-2 Maccabei, Sapienza e Baruc.
Nei confronti dell’ellenismo – periodo storico caratterizzato dalla diffusione della cultura greca - Ben Sira non predica alcuna crociata né erige barricate, ma assume una posizione aperta simile a quella degli antichi saggi, i quali attinsero alle letterature e alle civiltà del loro tempo adattando i loro contenuti alla fede di Israele. Ma non solo: l’autore è uno scriba che si pone non solo sulla linea dei saggi, ma anche dei grandi profeti di Israele.
Hanno un carattere profetico le parole che udiamo nella prima Lettura di questa domenica: «Il Signore non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento». Dispiace che, nella lettura liturgica, sia saltato il versetto successivo, molto forte: «Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare?». Dio e il povero stanno stretti, guancia a guancia, e il pianto del povero bagna il volto del Signore. Di più: Dio diventa voce di chi non ha voce: egli grida contro i malvagi e gli oppressori.
La seconda Lettera di Paolo a Timoteo, proposta per la liturgia odierna, è stata giustamente definita il testamento spirituale dell’apostolo. Paolo si trova in carcere a Roma, in attesa dell’imminente condanna a morte, e scrive al suo più caro discepolo trasmettendogli le sue ultime volontà.
Con due immagini Paolo descrive la fine che lo attende. «Il mio sangue è versato in libagione»: come nel culto giudaico il vino veniva versato sul fuoco dell’altare come offerta sacra, così il sangue dell’apostolo sta per essere versato quale offerta a Dio nel martirio. Con un’altra immagine Paolo paragona la sua morte imminente a un ritorno al Signore nella casa paterna: «È giunto il momento che io lasci questa vita». La frase è tradotta anche con: «È giunto il momento di sciogliere le vele». Le vele vengono ammainate quando si sta arrivando al porto dopo una lunga navigazione. Giunto alla fine della sua vita Paolo volge indietro lo sguardo: ha raggiunto il traguardo con coscienza tranquilla; ha combattuto una gara meravigliosa al servizio della fede; in mezzo a tante attività, sofferenze, fatiche, ha custodito fedelmente e conservato integra la sua fede in Cristo Signore. Egli può quindi aspettarsi ora con sicura speranza la corona della vittoria, come un atleta che ha vinto la corsa. Con l’apostolo riceveranno il premio anche quelli che nella loro vita avranno atteso con amore la «manifestazione» del giudice divino.
In tutte le prove il Signore gli è stato vicino e ora va incontro alla morte con animo sereno e pieno di fiducia. Per lui, come per ogni cristiano convinto, la morte ha perso tutto il suo orrore, non essendo ormai che un passaggio, un ritorno al Signore. Ogni cristiano che alla fine della sua vita potrà guardare indietro a una vita spesa al servizio del Vangelo, potrà aspettarsi con la stessa fiducia di Paolo la corona della vittoria.
Il Vangelo ci narra di due persone che si recano al tempio per la preghiera: “uno era fariseo e l’altro pubblicano”. Il fariseo si considera l’unico giusto e disprezza tutti gli altri. Per lui sono tutti “ladri, ingiusti, adulteri”. La sua preghiera non è rivolta a Dio, ma è un grande atto di presunzione e di orgoglio: «Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Il suo “io” è così gonfiato da riempire tutto lo spazio del tempio: non c’è posto per nessun altro e neppure per Dio. Il fariseo infatti prega «tra sé», non riconosce la presenza di Dio, riducendo il rapporto con lui a un calcolo contabile. E, se vede il pubblicano, lo fa solo per prendere le distanze da lui: «Non sono come questo pubblicano!». L’altro non esiste come persona, ma come categoria di pensiero; l’altro non è niente.
Diversa la preghiera del pubblicano: si ferma all’ingresso del tempio, non osa nemmeno alzare lo sguardo e si batte continuamente il petto. Non mormora altra preghiera che questa: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Gesù dice a coloro che lo ascoltano: «Il pubblicano, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato».
Facciamo un piccolo ripasso delle nozioni imparate al catechismo. I farisei erano un gruppo religioso noto per la stretta osservanza della Legge ebraica e delle tradizioni religiose. Erano considerati esperti della Torah e avevano una grande influenza, specialmente tra le classi popolari. Il loro nome significa “separati”: si consideravano infatti diversi da tutti gli altri, catalogati inesorabilmente nell’elenco dei peccatori. I pubblicani invece erano ebrei che collaboravano con l’Impero romano, riscuotendo a loro nome le tasse. Erano attaccati al denaro, umiliavano la povera gente e spesso diventavano ricchi rubando ai poveri. Erano semplicemente odiati da tutti e venivano considerati pubblici peccatori.
Ora, contrariamente al giudizio di molti, il pubblicano viene “giustificato” e il fariseo no! Cosa vuol dire «essere giustificati»? È il concetto che Dio, per pura grazia, dichiara giusti i peccatori. È affermare che non si è giustificati per le opere buone, ma per la fede in Dio che ci libera dal potere del peccato, rendendo le opere una conseguenza della salvezza, non la causa.
Per concludere, la parabola insegna che l’umiltà è la chiave per essere giustificati da Dio, non l’autosufficienza o la presunzione, o il prendere le distanze dagli altri, ritenuti indegni e peccatori. Il fariseo, convinto della propria giustizia, si vanta delle sue opere e disprezza il pubblicano, mentre quest’ultimo, riconoscendosi peccatore, chiede umilmente perdono e misericordia a Dio.
Dice Gesù: «Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». Il cristiano è “umile”, non “umiliato”. Umiliato significa: messo sotto, giudicato, rifiutato, messo al margine. È quello che fa il fariseo con il pubblicano. Umile significa invece: libero, cosciente dei propri limiti, pronto per la verità, disponibile a riprendersi ogni giorno, come se fosse sempre il primo. Non si tratta della promessa di un successo mondano, ma di una salvezza che solo Dio può dare. Il Vangelo ci propone una visione del mondo rovesciata: occorre farsi piccoli per entrare nel mistero di Dio.
Giorgio Scatto
Ancora sulla preghiera, come per dire che è la modalità principale per conoscere il Regno di Dio.
Noi possiamo equivocare su tutto e ritenere che pregare sia sufficiente e Gesù stesso mette in guardia: non chi dice Signore Signore… Accanto agli inviti a pregare non mancano le indicazioni sul come.
Capita un po’ a tutti sentire che le preghiere a volte sono solo suono di labbra, che non escono dalle pareti della mente e non vanno lontano. Concludiamo: Dio non ascolta! Abbiamo allora la sensazione di compiere un gesto già finito, che le parole ricadano giù spegnendosi come i fuochi di artificio. Stiamo davvero parlando a Dio? A volte siamo anche distratti…
Meglio così, perché contattiamo la pochezza e l’umiliazione: la preghiera comporta il contatto con la terra (humus) e con il cuore: umiltà e sincerità.
La preghiera non è nemmeno una pratica dovuta, come restituzione per un beneficio ricevuto o atteso. Tutto è libero e gratuito. Dio non ha bisogno delle nostre preghiere o delle nostre virtù, ma tanto meglio per noi se le abbiamo.
Il fariseo ritto in piedi pregava Dio riconoscendogli il merito delle sue virtù. Giusto! È rispettoso della Legge, è onesto, non è peccatore, paga le decime. A posto insomma. Per quanto convinto di lodare Dio la sua preghiera non raggiunge l’Altissimo. L’atto del pregare non vale come riscontro del pregare davvero. Solo un cuore arresosi alla misericordia e che nulla presume può funzionare.
Eppoi c’è il caso di Madre Teresa che a fronte della sua eroica carità ha sperimentato il silenzio di Dio. Vale a dire: non sempre alla preghiera corrispondono le consolazioni.
Tornando al tempo del Vangelo, i Farisei erano la parte più rigorosa degli Ebrei credenti. Tradizionalisti e restauratori, integralisti come colti talebani. Credevano in Dio ma lo facevano coincidere nel rigore della Legge, che era un modo per venirne a capo. Non conoscevano Dio ‘per sé’, che è misericordia e comunione. Gesù lo rivela.
Non è un caso strano: ce n’è di gente che dice di credere in Dio e poi è legge a sé stessa, più o meno come i non credenti. Dio non prende le parti di nessuno, non fa distinzione in base a meriti e demeriti, dice la Scrittura. Quando piove si bagnano tutti. Nessuno può vantarsi del bene che fa. “Quando avete finito dite: siamo servi inutili, abbiamo fatto quel che dovevamo fare”.
Si dice che la Scrittura si commenta con la Scrittura, dove tutto si tiene. Il fariseo è religioso solo nella postura: riconosce che quel che è e che ha lo deve a Dio, ma ne fa motivo di differenza e di giudizio. Manca solo che di fronte ai guai altrui, mentre si dice dispiaciuto, si compiaccia di non essere in quei panni.
In ogni caso la qualità della relazione con Dio non viene dal possesso dei beni materiali o spirituali. Le virtù non costituiscono titolo di merito. Titolo di merito non è una coscienza senza peccati, ma un cuore affranto e umiliato. Che poi non c’è uno che possa dire: io sono a posto. Non si vanifica la croce di Cristo.
Dunque non sono le virtù che ci salvano. E d’altra parte è possibile scambiare Dio con le virtù umane. La strada per il fariseismo è di nuovo aperta. È facile immaginare cosa passi tra un individuo ben messo e un altro in malarnese. Rinascono la meritocrazia e l’orgoglio. La condizione del pubblicano è in realtà quella di qualunque uomo davanti a Dio. Si dice che Padre Pio convertisse perché tra sé e l’altro non si distingueva di chi fosse il peccato. Egli prendeva su di sé il peccato dell’altro. Era, è questo lo sbaglio del fariseo, la ricerca della purità individuale e con essa fare la differenza.
Il Vangelo di domenica dice che non hanno grandi ali le preghiere dei virtuosi, ma quelle dei poveri che chiedono scusa di esistere, ma pure nella disperazione gettano avanti la speranza. Spes contra spem.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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