Briciole dalla mensa - Solennità del SS. Corpo e sangue di Cristo (anno A) - 22 giugno 2025
LETTURE
Gen 14,18-20 Sal 109 1Cor 11,23-26 Lc 9,11-17
COMMENTO
«In quei giorni, Melchisedeck, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo».
Questa figura sacerdotale, che appare nel libro della Genesi, non legata al sacerdozio levitico, viene utilizzata nella lettera agli Ebrei per prefigurare il sacerdozio di Cristo. Scrive infatti l’autore di questa lettera: «Gesù, pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalla cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck» (Eb 5,8-10). È un testo di fondamentale importanza che intende annunciare la definitiva ed eterna alleanza tra Dio e l’umanità, realizzata attraverso la pasqua di Gesù che offre se stesso per noi: in questo consiste il suo sacerdozio. Cristo poi, con l’offerta di sé, genera la comunità cristiana e questa è tale perché si lascia generare da Cristo e partecipa della sua vita.
Io però, per cercare di spiegare a me e a voi la solennità che celebriamo in questa domenica, partirei dal brano del Vangelo.
L’evangelista Luca aveva messo in luce l’intenzione di Gesù di vivere un tempo di ritiro, in disparte, verso la città di Betsaida, luogo natale di Pietro, Andrea e Filippo. La folla, però, lo viene a sapere, lo segue lungo la strada e lui non li manda via ma inizia a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Per comprendere l’Eucaristia bisogna creare un contesto, occorre partire da più lontano, dal popolo e dai suoi bisogni, dai suoi desideri più profondi, dalle sue ferite, dalle sue angosce e paure. E bisogna annunciare instancabilmente a questo popolo il desiderio di Dio, che incontra il desiderio più profondo dell’uomo: edificare un mondo di pace, nel quale tutti si riconoscano fratelli, figli dello stesso Padre.
Cos’è il “regno di Dio”? Il regno di Dio è questo mondo come lo desidera Dio: per questo invia suo Figlio nel mondo e gli dice, mediante lo Spirito: «Ti ho mandato “a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore”» (Lc 4,18-19).
Nel testo evangelico appaiono alcuni particolari: c’è solitudine e deserto tutt’intorno; il buio della notte incombe su questa folla in attesa; i Dodici non sanno fare altro che suggerire a Gesù di mandar via tutta quella gente. La risposta del maestro è perentoria: «Voi stessi date loro da mangiare». Il progetto di Dio sul mondo incontra ostacoli, rallentamenti, chiusure, anche da parte degli uomini di Chiesa. Il deserto è anche quello delle relazioni e la notte che scende inesorabile è la mancanza di speranza che rende molte persone prigioniere del momento presente. Spesso, per non fare nulla, si accampano pretesti che hanno la parvenza della verità: «Abbiamo solo cinque pani e due pesci; dobbiamo andare noi a comprare il pane per tutta questa gente? Duecento denari non sarebbero sufficienti!» La ragioneria ecclesiastica non ha mai dato alcun buon risultato, ma ha dilatato oltremodo gli spazi della paura e dell’ignavia. È come dire: «Cosa possiamo fare noi per Gaza, per l’Ukraina, per realtà che superano infinitamente le nostre possibilità?». Così ci si limita ad una formale preghiera, ci si commuove per un momento e tutto finisce lì. Il Vangelo non trova casa.
Cinque pani e due pesci per cinquemila uomini: mettere insieme le due realtà, questo è Vangelo!
La nostra fede ama i paradossi, le affermazioni formulate in apparente contraddizione con l’esperienza comune o con i principi elementari della logica, ma che all’esame critico si dimostrano valide. Chi ha fede non si affida al calcolo, ma a Dio e ne invoca costantemente l’aiuto. Di fronte alla folla affamata Gesù alza gli occhi al cielo e recita la benedizione sui pani e sui pesci. Nella Bibbia la benedizione è sempre in relazione alla fecondità, al futuro, alla vita e alla sua crescita; è un augurio di pienezza. Così il cristiano: di fronte alla guerra, alla violenza, alla fame delle moltitudini, al pianto delle madri di Gaza, o di Gerusalemme o di Teheran, deve porre quel poco che ha, anche il poco della sua stessa esistenza, a disposizione di tutti, senza riserve. Questo lo fanno molte persone, anche quelle che non si riconoscono nella fede cristiana. Ma questo è un atteggiamento eucaristico, premessa e continuazione di quello che avviene nella celebrazione domenicale. Come Gesù: non ha iniziato la sua vita pubblica con l’Eucaristia, ma tutto ciò che ha fatto, detto, e vissuto era Eucaristia: offerta di sé al Padre e ai fratelli: «Non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10, 5-7). C’è un’Eucarestia ‘cosmica’, nel dono della vita di tanti nostri fratelli e sorelle.
L’Eucaristia che celebriamo da cristiani è il memoriale di questo grande dono d’amore, presenza di un corpo donato per noi fino allo spargimento del sangue. Gesù è buono come il pane fragrante e continua a donarsi per edificare il suo corpo che vive ora nella storia.
Sottolineo ancora due cose che mi colpiscono sempre in modo molto forte, ogni volta che celebro l’Eucaristia.
«Fate questo in memoria di me»: l’unico modo di fare memoria di Gesù è fare come ha fatto lui: donare la nostra vita, fino alla fine.
«Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga»: la morte di Gesù in croce non va negata, nascosta, coperta dall’evento glorioso della risurrezione: va annunziata! Solo un amore che conduce fino alla morte può vincere la potenza della morte, andare oltre. È da quella morte gloriosa che noi abbiamo ricevuto la vita.
Giorgio Scatto
Quando due fratellini litigano, il babbo e la mamma li dividono rimproverandoli e ne hanno per tutti e due. Poco più che giochi, come leoncelli che si preparano alla lotta, sembra. Quando litigano da adulti, metti che uno dei due scarichi sull’altro un non so che malumore, una difficoltà a gestire le proprie frustrazioni, le cose cambiano, allora c’è astio, livore, inimicizia. Il padre e la madre ci soffrono. Provano magari a parlare, a chiarire, non si capacitano di quella divisione, né potrebbero perché i figli sono nati dalla loro unione, che è comunque un atto sacro. Certo i figli non sanno che litigando contraddicono la loro stessa origine, tant’è che se il padre e la madre tornano ad ammonirli, le loro parole valgono come il due di coppe a briscola. A quel punto non si occupano dello strazio che fanno dei genitori che darebbero la vita per l’unità dei figli.
Diceva don Oreste ai suoi: “Non vi staccate mai dalla comunità. se lo fate vi sembrerà di essere vivi, ma solo per un po’ come un ramo tagliato, finché c’è ancora linfa, poi si secca”. L’amore fra i fratelli li farà grandi così da segnare la storia.
Non è lo stesso di Dio? Si ha un'idea allora di quale sia lo strazio del Padre manifesto e ripagato da Gesù: perché gli uomini siano fratelli!
La Chiesa celebra il Corpus Domini, l'Eucaristia, come per estendere il significato della Pasqua fin nei dettagli. Gesù, per conto del Padre, dopo aver pregato per l’unità dei discepoli (“perché il mondo creda”) compie il gesto dell’ultima cena. Giovanni, che era presente quella sera, racconta la preghiera accorata di Gesù al Padre perché li custodisca nell’unità, li protegga dal divisore, siano una cosa sola come essi sono una cosa sola… Il top di quello che può desiderare un padre, una madre. E la salute. Dopo di che compie il rito estremo: dà la vita per i fratelli, non per quelli che ‘tornano a lui con tutto il cuore’ ma perché ‘tornino’ a lui…’: non c’è una condizione, ma una conseguenza. Il sacrificio, l’atto sacro del dare la vita per amore dei suoi, non era ‘necessario’ in base ad una legge severa e incomprensibile, ma ‘necessitato’ dal desiderio della loro riconciliazione fra di loro e col Padre. Capiranno, non capiranno? Non importa più. Il gesto di Gesù prescinde dai riscontri e semmai li previene. Dall’altare del sacrificio si propaga lo Spirito di pazienza e di pace che pervade i dintorni e le nostre cervici ostinate.
A volte il mistero della redenzione si intreccia con i nostri casi, entra nella nostra situazione: c’è poco da tirarsi indietro quando la vita ci propone di prendervi parte per il bene di chi abbiamo a cuore. Occasione per fare offerta del nostro amore dolente, e capire un po' di più l'Eucaristia. Il riferimento potrebbe essere Paolo che dice: “Completo nella mia carne quello che manca alla passione di Cristo”.
Concludendo i suoi discorsi sul Cristo che espia il peccato del mondo anche ora facendosi tutt’uno con i sofferenti, i poveri, i piccoli malati, quel prete diceva: “Facciamo un mondo nuovo, dài, ci state!”. Proponeva di mettere la vita con la vita, per far ricadere su di sé il limite del fratello, solo modo per rigenerare il mondo: la condivisione insomma. Poi ridendo: “Che vi venga un mal di pancia finché non vi decidete!”. O era un santo o un matto. Per me tutt’e due.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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