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Una Parola allo sfiduciato

Briciole dalla mensa - Domenica delle Palme (anno B) - 28 marzo 2021

 

LETTURE

Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   Mc 14,1-15,47

 

COMMENTO

 

Nella domenica delle Palme e della Passione, la liturgia ci offre una particolare abbondanza della parola di Dio. A partire dal racconto dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme. Con il segno di entrarvi in groppa a un «puledro», Egli determina gli eventi, non li subisce. Gesù sa che a Gerusalemme lo prenderanno e lo uccideranno, ma così, seppur per via di negazione, affermeranno la sua regalità: «il re dei giudei». Un Re prefigurato dalla Scrittura che Lui vuole adempiere con i suoi gesti; un Re che viene da Dio e che perciò supera le attese degli uomini: sarà mite e povero. Tanto è vero che proprio nella proclamazione messianica nel suo ingresso a Gerusalemme, la gente tende a togliergli quella sua novità disarmante e dirompente, e ad attribuirgli la dimensione già nota: «il regno del nostro padre Davide».
C'è sempre il rischio di ridurre il Signore e la sua opera di salvezza solo alle nostre misure e ai nostri desideri, invece che aprirci noi a Lui, che ci supera sempre, e che perciò diventa per noi una novità scomodante. Davvero anche oggi la Chiesa pare, talvolta, come una pesante istituzione tutta involuta a custodire quello che si ha e quello che si è sempre fatto. Mi domando: se Gesù venisse oggi, assumerebbe le nostre liturgie insignificanti per l'uomo, le nostre pastorali ridotte a volonterose ma inincidenti preparazioni ai sacramenti, una morale escludente le persone e impotente nel recuperarle al Vangelo?! Rischiamo anche noi di essere come le folle dei discepoli all'ingresso a Gerusalemme: acclamiamo il già noto e rifiutiamo così la novità del mistero divino che si compie. Gesù non ha cercato queste acclamazioni: ai suoi discepoli ha solo chiesto di stare con Lui, e condividere il tratto drammatico del dono di sé nella sua offerta. Invece al Getsemani i discepoli dormiranno, poi lo abbandoneranno per fuggire e non saranno presenti né alla sua croce né alla sua tomba, come invece lo saranno le donne. Si può abbandonare il Signore anche non aprendosi alla sua novità.

 

Nella prima Lettura, il servo del Signore riconosce la sua missione nel «indirizzare una parola allo sfiduciato». La sua disponibilità all'ascolto del Signore e la sua mitezza davanti alle violenze subite - ponendo la sua fiducia in Dio - formano la sua «lingua» in questa missione di consolazione. È la condivisione del dramma umano che forma l'uomo di Dio. Ed è bello che la sua attenzione sia tutta rivolta a chi è «sfiduciato». Egli si riconosce proprio nella cura nei confronti di chi non ha appoggi e "sostegni". Anche oggi la Chiesa deve svolgere un ruolo importante di "sostegno", ben oltre quello economico, verso tante persone provate e disorientate. Il Signore la assiste; deve saper assistere, a sua volta, chi è confuso.

 

L’inno ai Filippesi (seconda Lettura) osa descrivere in maniera "scandalosa" l'abbassamento fino alla croce del Figlio di Dio. Dice, infatti, che, in questo modo, «svuotò» se stesso dei privilegi divini, della sua stessa umanità diventando schiavo e - ulteriore e ultimo svuotamento - la morte di croce. Si tratta della privazione totale di qualsiasi valore non solo divino ma anche umano.
Credo che dobbiamo fermarci a contemplare questo «svuotamento» di Cristo in se stesso. Infatti se subito vi attacchiamo le spiegazioni e le motivazioni, vuotiamo lo «svuotamento» del suo essere. Non è più un «vuoto», se fosse solo un passaggio per salvarci, per solidarizzare con i condannati, per riscattarci, per provocare l'intervento del Padre, ecc. Una realtà vuota, invece, non ha senso né finalità. Lo svuotamento di Cristo - voluto, non subito - è stato il suo consenso a diventare nulla, ad essere squalificato religiosamente e umanamente. Come è possibile che un Dio e un uomo arrivi a tanto?! Noi cerchiamo Dio nella potenza; la sua croce dice, invece, che lo troviamo nella massima debolezza.

Una debolezza che Egli assume a partire dal fatto che «non ritenne un privilegio l'essere come Dio». Letteralmente questo sostantivo, in greco, significa «rapimento»: portare via e tenere stretto, come quando uno si impossessa in maniera ingiusta e violenta di qualche cosa, che poi trattiene con la stessa violenza con la quale se l'è procurata. Ebbene, Gesù Cristo non ha vissuto un rapporto così ossessionatamente possessivo con le sue prerogative di Dio e poi anche di uomo. La sua umanità, la sua morte da schiavo condannato sono la misura concreta e drammatica di come non si sia tenuto stretto a sé stesso: un Dio scandalosamente privato di se stesso e anche di ogni umanità.
Si tratta allora di un Dio che osa perdersi in tale modo. Per me, è il più grande mistero di Dio, in Gesù Cristo: non la sua onnipotenza, ma il suo svuotamento, un Dio senza Dio. Per questo poi si dice che il Padre «gli fece la grazia di un nome che è al di sopra di ogni nome»: è un atto del tutto gratuito verso colui che è diventato ciò che non vale nulla.
Tutto questo mi pone la domanda su una religione che continua voler affermare un Dio trionfante. Ma, di fronte al male del mondo, possiamo guardare solo a un Signore svuotato di se stesso, modello di chi «non cerca l'interesse proprio, ma quello degli altri» (Fil 2,4).

 

Alberto Vianello

 

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