Briciole dalla mensa - Festa di Cristo re (anno B) - 24 novembre 2024
LETTURE
Dn 7,13-14 Sal 92 Ap 1,5-8 Gv 18,33-37
COMMENTO
Questa festa nasce nel 1925, quando nel mondo andavano imponendosi nuove forme di poteri assoluti, e la Chiesa voleva contrapporvi la regalità di Cristo. Ma Gesù Cristo non è re dell'universo alla maniera dei re del mondo cioè secondo la logica del mondo.
I re del nostro oggi sono i padroni del web, dei social, delle nuove tecnologie. Con il loro denaro e il loro potere, essi si pongono al di sopra di quelle che sono le istanze fondamentali del vivere sociale: la giustizia, le leggi che garantiscono la libertà di ciascuno, le regole del rispetto della dignità di ogni uomo. L'unica regola è il loro profitto e il loro potere, a cui tutto viene sottomesso. Mai come oggi, nel mondo, l'interesse e il guadagno di pochi prevarica e umilia il bene di tutti. E, in un mondo basato solo sul mercato, noi non siamo semplicemente ridotti a compratori, bensì - e molto peggio - siamo noi il prodotto.
Gesù, invece, si attribuisce un unico potere: riconciliare l'uomo con Dio (cfr. Mc 2,10); e un potere che Egli ha vissuto in un unico modo: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45).
Tale è la regalità che Gesù afferma davanti a Pilato. La domanda del governatore riguardava proprio la sua regalità: «Sei tu il re dei Giudei?». La risposta di Gesù può sembrare puntigliosa: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Invece Gesù vuole proprio risolvere l'ambiguità che questa formula può suscitare. Pilato diceva «re dei Giudei» come poteva intenderlo un romano, ovvero un re politico, comune, di una determinata nazione; oppure lo diceva come lo intendeva un giudeo, cioè il Messia atteso da Dio per portare tutta la sua grazia? E Pilato risponde che ha preso di peso la formula dai giudei, e quindi nel senso che aveva nel contesto originario in cui era usata, che era il contesto di fede, dell’attesa del popolo di Israele: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me». Quale poi forse la coscienza che Pilato aveva di tale portata teologica è un altro discorso.
Facendo leva su questa distinzione, Gesù proclama lo "stile" della sua regalità, totalmente diverso da quelle di questo mondo: «Il mio regno non è di questo mondo: se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei». È questo l'elemento immediatamente riconoscibile della regalità «di questo mondo»: la lotta, le contese, la violenza, la guerra, la morte. L'ambito del regno di Cristo è diverso: è totalmente nella luce, nella pace, nella dolcezza e nella vita; è la croce, nella sua dinamica di misericordia e di apparente sconfitta.
Dopo aver affermato questa radicale distinzione, Gesù può rispondere compiutamente alla domanda di Pilato («Dunque tu sei re?»): «Tu lo dici, io sono re». È un'espressione che Gesù usa altrove. Si tratta di una risposta affermativa per quanto riguarda il suo contenuto, ma anche riluttante o evasiva per quanto riguarda la sua formulazione. Una "prudenza" ancora necessaria, a causa del sempre possibile equivoco del titolo «re dei Giudei». Ma, comunque, Gesù proclama la sua regalità.
«Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità»: la «verità», nel Vangelo di Giovanni, è la rivelazione e la manifestazione di Dio nella carne del suo Figlio diventato uomo. Gesù è testimone di quella verità che è Lui stesso (cfr. Gv 14,6); e il credente è colui che fa regnare sulla sua vita il Signore attraverso l'ascolto della sua parola. La verità è il Figlio che il Padre ci ha donato perché il mondo si salvi (cfr. Gv 3,16); e il Figlio, a sua volta, si dona, donando gratuitamente e per amore la propria vita, «perché non viviamo più per noi stessi (che vorrebbe dire morire), ma per Lui che è morto e risorto per noi».
Quando Gesù ha affermato che il suo regno non è «di questo mondo», il testo greco ha usato un avverbio (entèuzen) che poi usa di nuovo nella scena della crocifissione: i due uomini crocifissi con Gesù sono posti «uno da una parte e uno dall'altra» (entèuzen kai entèuzen). Allora c'è da chiedersi dove mettiamo la scritta «regno di Dio». Se la mettiamo dove si insegue il potere, l'immagine, l'interesse, oppure se la mettiamo sulla croce di Gesù, come fa Pilato: forse del tutto ignaro, ma, per Giovanni, l'unica autorità che poteva dichiararlo formalmente.
Subito dopo Pilato presenterà Gesù alla folla dicendo: «Ecco l'uomo!»; e così ci rivela quale è la via alla vera umanità, quella della passione per l'uomo, tanto che Dio non risparmia nulla di se stesso, e proclama l'uomo più importante di sé, gli dona tutta la sua vita. Sembrerebbe che si scateni e prevalga la bestialità: l'umanità di Gesù a confronto con la bestialità, la disumanità. «Ecco il re», dice la liturgia di questa festa. «Ecco l'uomo», dice Pilato, per la speranza di una nuova umanità, come albeggia nel corpo crocifisso del Figlio di Dio.
Alberto Vianello
È un po’ strano che la festa di Cristo Re sia stata istituita dal papa Pio XI solo nel 1925, cioè quando i regni sulla terra erano ormai pochi, senza tuttavia che con essi siano diminuite le mire egemoniche delle nazioni, gli imperialismi. L’affermazione della regalità universale di Cristo ha avuto il significato storico di indicare a fronte dei nazionalismi dove e quale è il potere buono, quello che libera e non asservisce.
Certo è che per le categorie umane il titolo regale richiama altri privilegi, altri vantaggi. Siamo fragili e andiamo facilmente in confusione.
Ma il potere Cristo ce l’ha ed anche noi possiamo farne esperienza. Egli già in fasce a Betlemme è riconosciuto come re, è il figlio del re Davide, è re davanti a Pilato, non lo nega di fronte alla condanna a morte. Ha il potere di dare la vita e riprenderla: non è cosa di questo mondo.
Cristo è il re dell’universo, colui nel quale le cose sono, che è prima di noi e ci conosce prima che noi ci conosciamo, secondo il Sal 138, non fa pace con il nostro peccato e tuttavia sta sempre dalla nostra parte facendo ricadere su di sé il nostro peccato come se fosse Lui ad averlo commesso: espia…
Chi vuol essere il primo sia l’ultimo, chi vuol essere re sia il suddito, chi vuole potere sia servo…
Sembra un contrappasso, come lo chiamava Dante, una punizione preventiva. Mortificazione ascetica. Dov’è il potere regale? Nel battesimo siamo fatti re, sacerdoti e profeti. Che vuol dire? Che l’’espiazione, l’amore in croce ha reale potere.
Nella parabola del figlio scapestrato, il padre esercita in realtà un potere regale. Quale? Quello che redime il figlio. È l’attesa sofferente e silenziosa con cui egli non fa conto del peccato del figlio che lo disconosce come padre, al tempo in cui Gesù la racconta c’era la pena di morte per un figlio che malediceva il padre (e chiedere l’eredità anzitempo era come dirgli: per me sei morto). Il padre che fa ricadere su di sé il peccato del figlio ‘opera’ per via di spirito il ritorno pentito del figlio. Era lì, davanti alla porta e annusava l’aria finché riapparve. Ecco: quel padre fa esperienza del potere di salvare.
Succede che abbiamo difetti, derivanti da paure che la psicologia prova a spiegare: reattività, spigoli, vertici e punteruoli… E spesso sono causa di offese e di irritazioni, litigi…. Ci sono le mogli, i mariti, i figli, le suocere… tutti con i loro caratterini. Solo i nonni se la cavano. Ma a parte loro in famiglia il conflitto è di casa. Diciamo alla leggera, ma a volte sono cose serie. Ammettere di aver commesso un errore è cosa rara, chiedere scusa cosa rarissima. Un cuore insincero è un cuore malato. Che fai, ti arrabbi? Dov’è e qual è il potere? Magari di convertire, di cambiare le cose… Parlare sì, se le parole non sono proiettili. Oppure, come Gesù insegna ai suoi: far ricadere su di sé il peccato altrui. Prima o dopo gli tornerà in bene. Ci si sta male, ma meglio non confondere la persona col suo difetto. Nessun uomo è il suo errore, non è così? Far ricadere su di sé quel che l’altro non è ha un potere di liberazione. Questo amore fa bene ad entrambi.
Il padre che soffre in silenzio mentre aspetta il figlio espia il suo errore, lo rigenera e così lo riguadagna: ha il potere regale di salvarlo.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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