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Un perdono che porta la ferita

Briciole dalla mensa - 4° Domenica di Quaresima (anno C) - 31 marzo 2019

 

LETTURE

Gs 5,9-12   Sal 33   2Cor 5,17-21   Lc 15,1-3.11-32

 

COMMENTO

«Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo». Sconvolgente: i pubblici peccatori si sentivano attirati ed accolti da Gesù, il Messia atteso da Israele, il Figlio di Dio diventato uomo. Sconvolgente soprattutto se pensiamo alla realtà di una parte della Chiesa, soprattutto nei nostri giorni, chiusa nelle chiese, e in una morale legalistica, nel rifiuto di ogni realtà umana che non rientri nei canoni del "buon cristiano", della "vera famiglia", una realtà in questo modo tutta impregnata di una inaccettabile ipocrisia. Ma non è il Papa ad essere eretico, o una Chiesa mondana. È Gesù ad essere profondamente eretico, perché lascia che si facciano a Lui vicini i peggiori peccatori.
Anzi, il testo letterale dice che «erano avvicinantisi a Lui»: è una forma sintattica per dire che questo fatto non è un episodio isolato, una specie di situazione eccezionale imbarazzante e non voluta. Si tratta, invece, di una realtà che si ripeteva normalmente, tanto da diventare abituale: quando Gesù arrivava in un posto, immancabilmente gli si facevano attorno proprio quelli che la religione rifiutava come peccatori.

 

I "buoni cristiani" del tempo - «i farisei e gli scribi» - reagiscono scandalizzati. Anzi, Luca dice che riprendono il vizio del popolo in cammino nel deserto: «mormorano». Come Israele preferiva le cipolle della schiavitù dell’Egitto alla Grazia della manna che li conduceva a libertà, così i "bravi credenti" preferiscono una morale che rende schiavi e condanna i peccatori, piuttosto che la misericordia divina che libera tutti prigionieri.
«Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»: hanno proprio visto bene. Gesù non mantiene le distanze dai «peccatori», non li accusa, non li rimprovera, non pretende nulla da loro, né li condanna. Semplicemente, Gesù compie il gesto più umano: li accoglie. E poi «mangia con loro»: ascolta le loro storie, guarda i loro volti, pone attenzione alle loro situazioni. Gesù celebra un vero incontro con queste persone giudicate da tutti. Poi, a tavola, avrà anche parlato loro di un regno di Dio dove trionfa la misericordia, dove ogni uomo potrà recuperare la bellezza della propria umanità, dopo che si sarà progressivamente liberato dalle conseguenze di scelte sbagliate, riconoscendo in Gesù un Dio che non si è mai allontanato da lui, anche se lui si era allontanato da Dio e da se stesso. Ma «i farisei e gli scribi» non possono percepire tutto questo. Essi sono chiusi in quella falsa idea di Dio che si sono costruiti per proprio comodo: quella di un Dio che premia quelli come loro - che sono bravi perché mostrano di avere delle forme di religiosità - e punisce peccatori. Sono coloro per i quali il vero paradiso consiste nel vedere gli altri condannati all'inferno: la religione, per questi falsi credenti, è il luogo dove dare sfogo all'odio per chi è diverso da loro.

 

Allora, il figlio maggiore della parabola sono proprio loro, i "bravi credenti": sempre fedeli («non ho mai disobbedito»), sempre impegnati («io ti servo da tanti anni»), sempre gratuiti («non mi hai mai dato un capretto»). Come si può dire che non hanno ragione!? Eppure, hanno smarrito il volto del fratello («questo tuo figlio»), hanno smarrito il volto del padre (colui che fa festa per il figlio tornato a casa), hanno smarrito il luogo della loro vita («si indignò, e non voleva entrare [a casa]»), hanno smarrito se stessi (saper far festa per il dono dei fratelli), hanno smarrito l'umanità (saper solo condannare), hanno smarrito la fede (Dio è Colui che perdona e riconcilia a sé).

 

Certamente, l'accoglienza e il perdono del padre nei confronti del figlio che ha sperperato tutto il patrimonio e se stesso non sono un far finta che nulla sia successo. La misericordia è portare il peso della ferita subita (il padre) e provocata (il figlio). La parabola non lo dice - perché vuole portare l'attenzione del lettore sul figlio maggiore e far concludere che il suo rifiuto del perdono paterno verso il fratello minore è sbagliato - però si deve pensare che, dopo la reintegrazione in casa, il "figliol prodigo" abbia capito la ferita che ha provocato alla sua famiglia e si sia avviato in una via di pentimento. Perché il suo ritorno a casa era stato dettato ancora dallo stesso egoismo a causa del quale si era allontanato e aveva vissuto da dissoluto. Infatti le parole del suo ragionamento rivelano che egli era tornato semplicemente perché aveva fame e si era ricordato del pane che, in casa di suo padre, anche i servi avevano in abbondanza. E, tornato, chiede al padre di essere trattato come un servo, cioè di ricevere il pane. Al peccato non segue il pentimento e quindi il perdono. Piuttosto, è il perdono gratuito e incondizionato del padre che deve aver suscitato la coscienza del male commesso dal giovane. Il perdono del padre gli restituisce dignità, ma dobbiamo immaginare, con un buon senso delle cose, che questo figlio dissipatore abbia poi assunto la responsabilità del male provocato alla sua famiglia, non solo con una condotta più retta, ma anche con una vita più cosciente e responsabile del dolore provocato agli altri. Un perdono che non tenga conto del male commesso e che non comprenda il portarne la ferita sarebbe un perdono irreale e ingiusto.
In questo senso, mi ha colpito la dichiarazione di Lucia Annibali, in seguito alla notizia di una lettera di richiesta di perdono dal carcere, da parte dell'uomo che l'ha sfregiata al volto con l'acido. «Se è sincero ed ora è consapevole di quello che ha fatto e non è più la sagoma oscura che ho visto dentro casa mia, io posso anche perdonare. Ma quel perdono serve più a lui che a me. Deve fare i conti con ciò che ha fatto come io convivo ogni giorno con quello che mi ha fatto, perdono o non perdono». Il perdono non può ignorare il dolore della parte offesa e deve aiutare il peccatore ad assumersi la responsabilità e il peso delle conseguenze del male commesso.

 

Alberto Vianello

 

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