Briciole dalla mensa - Festa di Cristo Re (anno C) - 23 novembre 2025
LETTURE
2Sam 5,1-3 Sal 121 Col 1,12-20 Lc 23,35-43
COMMENTO
La solennità di Gesù Cristo Re dell’Universo fu istituita da Pio XI nel 1925 con l’enciclica Quas primas per contrastare le ideologie secolari e totalitarie che escludevano Dio dalla sfera pubblica e per rafforzare la fede dei cristiani. Si colloca all’ultima domenica dell’anno liturgico per sottolineare che la vita cristiana culmina in Cristo e che l’anno che si conclude è stato vissuto sotto il suo regno.
Iniziamo il nostro piccolo commento dalla prima Lettura proposta per questa domenica. “Vennero tutte le tribù di Israele da Davide a Ebron e gli dissero: «Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele»”. La lettura dei primi cinque capitoli del secondo libro di Samuele non è del tutto piacevole al nostro udito. Ci troviamo di fronte a guerre fratricide, omicidi politici, racconti di sanguinose battaglie. C’è di che scandalizzarci.
Non dobbiamo però dimenticare che la Bibbia è per noi parola di Dio espressa attraverso un linguaggio umano, segnato dai limiti della cultura del tempo e dalla maggiore o minore capacità dello scrittore di leggere gli eventi della storia. Dentro le parole dell’uomo dobbiamo cercare la parola pura e perenne di Dio. Inoltre la parola di Dio non descrive una realtà umana ideale ma si incarna nelle situazioni concrete della storia, che spesso è fatta di violenze, di guerre, di tradimenti. Essa smaschera l’esistenza del male e lo racconta senza reticenze.
Questo non giustifica però letture fondamentaliste: i nostri fratelli ebrei sionisti- per esempio - leggono la Bibbia cogliendone solo il senso letterale, dichiarando così che la terra è stata data loro da Dio e che la guerra, i massacri e il genocidio di un intero popolo, quello palestinese, starebbero nella volontà stessa di Dio. Dire così è bestemmiare il nome di Dio. La Bibbia racconta la vita, narra la storia dell’umanità, ma il progetto di Dio, in mezzo a tanta miseria, è la misericordia e la pace, la vita e la salvezza.
La lettura dei primi versetti del capitolo 5 ci presenta una scena diversa dalle scene di violenza narrate precedentemente: Davide è consacrato re su tutte le tribù di Israele. Alcuni aspetti devono essere sottolineati: sono «gli anziani» delle tribù di Israele e di Giuda che scelgono Davide come re e stabiliscono con lui un’alleanza (v.3). Il potere del re non è assoluto, ma nasce sul riconoscimento da parte del popolo e su un patto che obbliga entrambi i contraenti. C’è un ulteriore elemento sul quale si fonda la monarchia israelita: il riconoscimento da parte di Dio. Già prima il v. 2 chiariva che dietro la scelta degli anziani c’è una precisa promessa divina: «Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo di Israele”». Se Davide è re è perché il Signore lo ha scelto: l’alleanza tra lui e il popolo viene stabilita «davanti al Signore».
“Essi unsero Davide re d’Israele”. Il verbo «ungere» è in ebraico «mashàk», da dove deriva il termine «Mashìach», Messia, colui che viene consacrato per ricoprire ruoli sacerdotali, regali o profetici. Essere capo in Israele, “condurre e ricondurre” il popolo, è assumersi il compito di difenderlo dai nemici; “pascere” il gregge è prolungare per il popolo l’azione del Dio di Israele, che protegge, guida, ha sollecitudine per il suo popolo. Non è il popolo al servizio del re, ma il re al servizio del popolo.
Nella seconda Lettura viene offerto alla nostra contemplazione uno straordinario inno cristologico. Se Davide, pur segnato dalla violenza e dal peccato, è stato pastore in Israele, consacrato re e messia per condurre alla vittoria il suo popolo, il Figlio amato, «per mezzo del quale abbiamo la redenzione e il perdono dei peccati», è consacrato come « capo del corpo della Chiesa, principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti». Perché questa maestà e gloria attribuita al Figlio? Perché lui ha «pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli»: è lui che ha radunato i figli di Dio che erano dispersi, che ha ricondotto in unità i figli di Israele; è lui che è il vero pastore delle pecore.
Chi, in definitiva, gli ha dato tutto questo potere? Dobbiamo innanzitutto «ringraziare con gioia il Padre», perché ha donato a noi suo Figlio come «immagine del Dio invisibile» e come «primogenito di tutta la creazione». Cercherei di tradurre così: in Gesù noi possiamo contemplare il vero volto di Dio perché, come dice san Giovanni, «Dio, nessuno lo ha mai visto» ma «il Figlio unigenito, che è Dio, ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18).
In secondo luogo, dobbiamo ringraziare il Padre perché in Gesù anche noi ci scopriamo figli, creature amate con lo stesso amore con il quale il Padre ama il Figlio e nel quale possiamo anche conoscere la misura per la piena realizzazione della nostra umanità. Gesù è l’orizzonte del nostro desiderio di vita.
Dove possiamo contemplare la gloria di questo re messia? E dove troveremo la parola efficace che provochi il nostro desiderio di vivere una umanità pienamente compiuta e realizzata? La troviamo nel Vangelo di oggi.
Sotto la croce di Gesù il popolo sta in un atteggiamento di religiosa attenzione, mentre i capi e i soldati lo deridono e lo oltraggiano. Anche l’iscrizione con il motivo scritto della condanna fa parte degli scherni “politici”: questo condannato a morte sarebbe «il re dei Giudei!». A questo punto, però, la scena cambia completamente. Mentre uno dei malfattori appesi alla croce si associa agli scherni dei presenti, il secondo lo rimprovera: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena?». Loro sono colpevoli ma Gesù «non ha fatto nulla di male». Ѐ come dire che, se Gesù, da innocente, subisce una tale condanna, come loro, la sua crocifissione è la testimonianza di una piena e totale solidarietà con la loro condizione di malfattori. Questa solidarietà è già una luce per chi non ha un futuro davanti a sé…
«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». In tutto il NT nessun altro si rivolge al Signore chiamandolo semplicemente per nome: «Gesù». Quanta tenerezza in questa espressione! Questa intima vicinanza dice due cose. Anzitutto che anche il ladrone aspetta l’avvento del Messia, mediante il quale egli avrebbe instaurato con potenza il regno di Dio sulla terra, alla fine dei tempi. In secondo luogo il ladrone, vedendo che Gesù condivide la sua stessa condizione di condannato, senza giudizi o altre condanne nei suoi confronti, si rende conto che può esserci una speranza anche per lui: «Ricordati di me».
«In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». La salvezza portata da Gesù contiene sempre una attualità che coinvolge il mio «oggi». Gesù promette al ladrone non il godimento in un luogo paradisiaco, e nemmeno una salvezza rimandata alla fine dei tempi. Gesù promette una vita di comunione con lui. In Gesù l’«oggi» acquista carattere di definitività e la salvezza è un vortice di amore per tutti, anche per i condannati a morte, abbraccio pieno e definitivo del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Come dicevano i Padri: «Regnavit a ligno Deus»: Dio ha regnato e ha manifestato la sua gloria dal legno della croce. Sulla croce ha detto a me peccatore, con la sua autorità di figlio di Dio: «Oggi sarai con me».
Giorgio Scatto
giorgio.scatto@gmail.com
È di questi giorni la notizia di alcuni signori che negli anni delle guerre jugoslave dall’Italia scendevano in Bosnia per il safari: per una certa cifra era loro consentito di sparare alla gente che usciva per strada. Cecchini della domenica, un divertimento che mai. Adrenalinico. E vantarsi di averne abbattuti dieci quel giorno. O venti, o cento.
I Romani della morte avevano fatto uno spettacolo. Per i patiboli andava molto bene la croce. Che invenzione la croce! La scena è desolante, squallida: nell’atmosfera livida avveniva l’esecuzione di tre disgraziati. Là sotto i parenti piangono, di lato i soldati avvezzi al sangue sorvegliano e giocano ai dadi. In parte i mandanti soddisfatti sostengono la vista orribile deridendo i 'malfattori'. Ce l’hanno soprattutto con quello al centro, che non maledice, non urla. Pare che preghi con un fil di voce. Quanti pittori e quanti dipinti! La scena madre della storia.
Provo ad entrare nella testa della gente che era su quel costone di monte. Ci sono quelli che sono andati a ‘vedere’, come in città più grandi si andava al circo per assistere ai ludi gladiatori. Come la folla di Parigi si riversava in place de la Concorde per assistere alla decapitazione della regina Antoinette, di Luis e di mille altri. Ma sul Golgota quelli che pensano, i sacerdoti, gli scribi, mandanti, sono lì per vendetta e per difendere la Legge. “…secondo la quale quello lì deve morire”. È gente educata questa e per sentirsi a posto devono nutrire un severo, sicuro giudizio di condanna. “Se l’è cercata!”. Sono i rappresentanti della costituzione religiosa secondo cui “Chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”. Già detto in Gv 16.
Qualcuno di essi, più saggio e meno invidioso, ha sospeso il giudizio su quell’uomo, il secondo dei tre, ed avrebbe avuto compassione di lui. “Ha detto e fatto del bene…”. Nicodemo non è andato. Ci sono i parenti di Gesù sotto la croce, dove li lasciano stare. Guardano in su e piangono, piangono.
Uno degli appesi, a differenza dell’altro, non provoca, non sgrida Gesù (sanno che potrebbe fare qualcosa), ma resta nella sua condizione, non la maledice e rivolge la speranza verso chi è da tutti riconosciuto incolpevole. Ed inizia un’altra storia.
Basta porre una ragione superiore (ma anche no, dicono i cecchini per turismo) e l’orrore è lecito. Così si decide senza metterci la coscienza personale. “Io non posso farci niente. Applico, eseguo”, come dicono i criminali di guerra. Dove avviene il delitto? Dove si situa l’aberrazione?
La compassione, diceva Foscolo, è la sola virtù non usuraia, cioè libera, gratuita, tale da non chiedere niente in cambio. Ci possiamo arrivare in momenti di grazia, rari. Il comandamento “non uccidere” ci arriva per direttissima, ma le convenienze, le interpretazioni, le eccezioni corrompono l’assoluto in relativo.
San Paolo era un tipetto ferrato, colto, altolocato nel partito della Legge, interpretata col rigore dai farisei. Alla larga! Ci volle un imprevisto sceso dall’alto e si rese conto che non c’è legge fuori della carità. L’unica chiave che spiega il mondo, il dovere, la vita, il dolore, la speranza, la morte è l’amore, Che è Cristo. “Doveva morire” per dimostrarlo, tirarci su e risorgere poi. Paolo approfondì, studiò di nuovo, ascoltò e predicando e scrivendo costruì la prima cristologia. Come gli altri apostoli cercò di passare ad altri l’esperienza di amore, di stima, di affetto per colui che li aveva amati per primo, questo vuol dire ‘disceso dal cielo’.
Mi trovo a ragionare su questo punto. A giorni viene pubblicato un libro su don Oreste Benzi, servo di Dio e candidato agli altari. Mi sono chiesto come scrivere di lui in modo che la conoscenza dell’uomo concreto, con quel carattere, con i carismi, con le sue grazie possa essere meglio condivisa. La fede è conoscenza che passa dall’uno all’altro. Sapere di essere amati e credere sono la stessa cosa.
Ai Galati san Paolo scrisse. “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne la vivo nella fede nel Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato sé stesso per me”. Da allora per i cristiani vivere è Cristo. Di fatto la fede di ciascuno è una mediazione d’amore.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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