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Un nuovo esodo, verso una terra di giustizia e di pace

Briciole dalla mensa - 19° Domenica T.O. (anno C) - 10 agosto 2025

 

LETTURE

Sap 18,6-9   Sal 32   Eb 11,1-2.8-19   Lc 12,32-48

 

COMMENTO

 

In questi giorni oscuri e violenti occorre essere pronti a partire di nuovo per un lungo esodo di liberazione, che domanda coraggio e condivisione di successi e di pericoli. Leggiamo infatti: «La notte della liberazione fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio… I figli santi dei giusti si imposero concordi questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri».

Il brano che ci viene proposto questa domenica si trova nella terza parte del libro della Sapienza, e presenta al lettore una riflessione sui fatti dell’esodo in cui, alla punizione subita dagli egiziani (gli empi), si contrappongono i benefici ottenuti dagli israeliti (i giusti); alla morte dei primogeniti d’Egitto viene contrapposta la Pasqua celebrata da Israele, il popolo che Dio si è acquistato promettendogli una Terra dove abitare.

La sapienza di Israele affonda le sue prime radici in quella già propria dei popoli del Vicino Oriente antico, dell’Egitto e della Mesopotamia. In tali contesti, parlare di sapienza significa parlare di qualcosa che nasce dall’esperienza e che è collegato, prima di tutto, con l’arte del saper condurre bene la propria vita; in oriente la sapienza nasce da una capacità di ascoltare, osservare, discernere la realtà in vista di un comportamento sociale giusto e fruttuoso. Ma leggendo i passi che evocano l’elezione di Israele, la sua liberazione dalla schiavitù d’Egitto e il dono della Terra, non riesco a trattenere – accanto alla comprensibile gioia - anche un moto di ribellione e di disgusto. Il motivo è che l’interpretazione tipologica-spirituale che per secoli ha ispirato l’esegesi cristiana, è drammaticamente sfidata dalla storia attuale.

 

Secondo un censimento Onu del marzo 2023 ci sono nei territori della Palestina, occupati illegalmente da Israele dopo “la guerra dei sei giorni” nel 1967, circa 279 colonie con più di settecentomila “mitnakhalìm”, coloni. Recentemente il governo israeliano ha approvato la creazione di altre ventidue colonie in Cisgiordania, un territorio che secondo la comunità internazionale appartiene ai palestinesi ma che da decenni Israele occupa illegalmente proprio tramite la costruzione di queste colonie (insediamenti che in molti casi assomigliano a piccole città). Per i coloni, e per il governo che sostiene questa politica, nulla di illecito, di abusivo: semplicemente è la ripresa di possesso della Terra promessa di Dio al Popolo eletto; abusivi sono gli altri, i non eletti. Penso allora che sia quanto mai urgente una profonda riflessione storica e teologica sul tema della Terra Promessa. Promessa a chi? A un popolo violento e assassino? Gesù dirà : «Beati i miti, perché loro avranno in eredità la terra» (Mt 5,5).

 

Da tempo, anche di fronte al genocidio operato a Gaza, mi sto chiedendo dove sia finito non solo il diritto e la giustizia, (mishpat e zedeq) di cui il “popolo eletto” si vantava, ma la stessa Sapienza di Israele, che ha reso famoso questo Paese in tutto il mondo. Gli studiosi parlano di un Pentateuco sapienziale: Proverbi, Giobbe, Qohelet, Siracide e Sapienza. La Sapienza di Israele (hokmāh) nasceva come opera di intellettuali al servizio del buon governo e offriva risposte concrete alle esigenze della vita pubblica, o affondava le sue radici all’interno dell’educazione familiare al fine di formare le nuova generazioni alla giustizia e all’equità. Tutto cancellato, in un lento processo distruttivo che dura fin dalla creazione dello stato di Israele, nel 1948. Oggi solo poche voci di uomini liberi alzano un grido di giustizia dalla terra di Israele. Credo, allora, che sia necessario un nuovo esodo, alla ricerca di ciò che è stato smarrito, sulle tracce di quella Sapienza che un tempo ha reso grande questo popolo. Con un rinnovato coraggio e una rinnovata fiducia nella salvezza, che può venire solo dal Signore: «Non con la potenza né con la forza, ma con lo Spirito di Dio» (Zac 4,6).

 

Anche il patriarca Abramo «chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende». Abramo è partito due volte: la prima volta con il padre Terach, la moglie Sarài e il nipote Lot, alla ricerca di fortuna, come molti anche oggi. Partì alla volta di Harran, nella regione della Mesopotamia superiore. È da lì che il Signore gli ha detto di uscire ancora, promettendogli di farlo diventare «padre di molti popoli».

Ma, qual è la terra che è promessa ad Abramo? In Canaan comprò a gran prezzo solo una caverna per seppellirvi sua moglie. Il nostro testo parla di un «luogo» che «doveva ricevere in eredità» e, se leggiamo bene tutto il brano, si capisce che questo luogo non si trova da qualche parte di questo mondo. Infatti tutti i pellegrini della fede, a partire da Abramo, non desiderano conquistare territori, eliminare quelli che vi abitavano, ma «aspirano ad una patria migliore, cioè a quella celeste». In questa prospettiva, come scriveva già nel secondo secolo dopo Cristo l’autore della “lettera a Diogneto”, «ogni terra straniera è patria, e ogni patria è terra straniera».

Emerge qui l’orientamento della fede verso il futuro, elemento senza dubbio tradizionale nell’interpretazione della vicenda di Abramo. Più avanti capiremo che nella corsa che ci sta davanti per raggiungere questa patria futura, dobbiamo «tenere fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,2). Questo sguardo su Gesù non ci rende estranei al mondo, ci impegna piuttosto a servirlo, costruendo incessantemente legami di giustizia e di fraternità con tutti, ad ogni latitudine. Anche la missione di Israele è analoga: esso è chiamato ad essere “luce delle nazioni” testimoniando l’unicità di Dio di fronte a ogni forma di idolatria e materialismo, cercando la santità e la giustizia. Anche l’orgoglioso ed esclusivo possesso di una terra, fosse pure quella “promessa”, è idolatria.

 

In questa prospettiva ci viene in aiuto il Vangelo di questa domenica «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno». Il regno di Dio non si conquista con le armi, radendo al suolo città e villaggi, facendo morire un popolo di fame e di sete, gettando migliaia di bombe su ogni cosa creata. Il Padre darà il Regno ad un gregge di piccoli, di umili, ai quali chiede addirittura di vendere ciò che possiedono e darlo in elemosina. Questo implica non solo una grande apertura verso i poveri, ma anche una profonda fiducia in Dio, che promette di provvedere a chi si prende cura degli altri. Il tesoro da ricercare non è una terra da possedere in esclusiva, perché la terra è di Dio, quanto piuttosto il vigilante servizio ai fratelli, il tenersi pronti alle inattese chiamate a servire ancora, fino all’avvento del Signore. Il discepolo è sempre e solo un amministratore, mai un padrone. Non può permettersi di «percuotere i servi e le serve, di mangiare e bere e ubriacarsi».

«A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto»: le persone che hanno ricevuto di più sono anche chiamate a dare di più e a rispondere delle loro azioni con maggiore responsabilità.

Occorre ripartire subito, in fretta, verso una nuova Pasqua, «intonando le sacre lodi dei padri».

 

Giorgio Scatto

monaco in Marango

 

 

La Lettera agli Ebrei ci fornisce la chiave: la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Da Parmenide il pensiero realistico, poi occidentale, fa coincidere quel che è con quel che si vede. Siamo afflitti da questo preconcetto. Ci sono molte più cose nell’invisibile di quante ce ne sono nel visibile, ma le perdiamo. Non è così nelle altre culture per le quali la coscienza è assai più ricca. Tra l’altro.

Segue l’elenco dei padri e dei casi: per fede Abramo, per fede Isacco, per fede Giacobbe inseguirono la promessa come uno di noi quando il cuore intuisce che quella è la cosa giusta da seguire, tale da contenere ogni giustizia. E una nuova realtà si manifesta.

Gesù raccomanda di non fermarsi alle cose che smuovono la cupidigia, l’interesse privato… Si avverte che qui avviene una svendita di sé. È una corruzione l’idolatria.

a liturgia in questa parte del tempo ordinario ci dà più occasioni per meditare sulle cose essenziali. Il presupposto: la verità ci abita e seguirla è immediata percezione di novità. Rispetto a ciò “quel che piace al mondo è breve sogno”, diceva Petrarca. Adulterio.

 

Il Vangelo riprende la prima Lettura, la memoria dei fianchi cinti e la cintura ai fianchi. State pronti, perché il ladro arriva quando meno lo si aspetta. Ma non che i padri abbiano realizzato la promessa, dice la Lettera agli Ebrei, ne abbiamo goduto appieno ma solo l’hanno vista in lontananza, come Mosè vide la terra promessa e non vi entrò. La loro conoscenza di Dio è stata mediata dalla fede. Dio si invera in questa realtà del visibile tramite la fede.

È l’esperienza del bambino che ha interiorizzato per bene la presenza della mamma e non chiede più di lei.  Io so che tu ci sei e questo mi basta. 

 

Vigilare, mettere in pratica tiene viva la sua presenza. Siamo noi a inverare Dio. Tutta la nostra vita si svolge in un ricordo continuo della sua parola, o della sua promessa, cosicché noi si diminuisca ed egli cresca. Dio è nelle nostre mani. Cresce la nostra responsabilità. infatti niente ci sarà dato senza che noi lo si voglia. Si dice che colui che ci ha creati senza di noi non ci salverà senza di noi. Questa vita di fede ci fa compartecipi del disegno di Dio. Se la promessa presuppone e rimanda al domani, la fede oggi ne è caparra, vince la distanza e la realizza nel tempo presente che viene così riportato al senso, al suo destino e salvato.

 

Valerio Febei e Rita

 

 

 

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