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Un cuore ecclesiale capace di «rimanere» per essere aperto

Briciole dalla mensa - 5° Domenica di Pasqua (anno B) - 5 maggio 2021

 

LETTURE

At 9,26-31   Sal 21   1Gv 3,18-24   Gv 15,1-8

 

COMMENTO

 

Nel percorso nel libro degli Atti degli Apostoli che la liturgia ci presenta in queste domeniche di Pasqua, entra in scena la figura di Paolo, figura appassionante e scomoda, per la Chiesa stessa. Infatti, «venuto a Gerusalemme, Paolo cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo». Bellissima, allora, la mediazione di Barnaba, che si fa testimone a favore di Paolo e suo garante: essere fratelli nel Signore è capacità di controbattere al dubbio, al sospetto, alla gelosia che aleggiano nella Chiesa, credendo e presentando la bontà del fratello, oltre i pregiudizi.
Allora Paolo si mette ad annunciare Gesù Cristo nelle sinagoghe degli ellenisti (ebrei di cultura greca), provocandone la reazione negativa e violenta. Per questo «i fratelli lo fecero partire per Tarso», la sua città natale. Ma, secondo Gal 2,1, Paolo vi rimase, "dimenticato" dalla Chiesa, ben 12 anni. Viene il sospetto che la persecuzione degli ellenisti contro Paolo sia stata, per la Chiesa di Gerusalemme, la scusa buona per allontanare una figura così scomoda, come quella di colui che vedeva, nell'apertura della fede ai pagani, l'inevitabile superamento della Legge per aderire alla salvezza, che si ottiene solo per Grazia, credendovi, una salvezza che è quindi per tutti. Secondo gli Atti, la prima caratteristica della comunità cristiana è stata la comunione fraterna, ma essa si è subito accompagnata ad uno stile di apertura verso il mondo e di sforzo di comunicare la fede agli esclusi, a cui ha contribuito in prima persona proprio il ministero di Paolo.
Purtroppo anche oggi la Chiesa si presenta, spesso, chiusa: viene a mancare la progettualità; non si ha la volontà di un ripensamento dello stile evangelico, che ha bisogno di essere nuovo, soprattutto nel dialogo con un mondo trasformato come lo è il nostro; si bloccano i tentativi di un impegno attuale per un futuro della Chiesa diverso, bollandoli come azzardati e incoscienti sperperi di risorse. Anche Paolo, pur con la sua passione per l'annuncio del Vangelo, farebbe fatica ad aprirsi la strada in una certa Chiesa attuale!

 

Allora dobbiamo chiedere «un cuore nuovo». Nella seconda Lettura, si parla della necessità di amare i fratelli «non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità». Per far questo bisogna sanare il proprio cuore: «Rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore». Tante persone vivono situazioni di inquietudine, afflizione, prova, oppure si sentono tanto povere. Ma Dio è «più grande»: ha una considerazione positiva di noi che va ben al di là delle nostre letture negative o depresse. Dio sa trovare in ciascuno di noi una positività che nemmeno noi sappiamo riconoscere di noi stessi. Allora, la vera via di fede consiste nel riuscire progressivamente a guardarci come Dio ci guarda e ci considera. Così, i Padri della Chiesa ci indicano il cammino del cristiano come un percorso di unificazione del cuore, di unione con il Signore senza distrazioni, essendo contemporaneamente uniti ai fratelli in una comunione d'amore che può venire solo da questa pacificazione del proprio cuore, attraverso un Dio che lo supera in bontà.

 

L'immagine della vite e dei tralci, cioè di Gesù e di noi, si trasforma in un accorato appello che il Signore ci rivolge di «rimanere in Lui»: è una necessità inderogabile, un'unica possibilità di vita. In effetti, Gesù conosce bene l'uomo e non vuole che siamo vittime di fallaci illusioni: «Senza di me non potete far nulla».
Questa è la risposta evangelica alla tentazione «di avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni». Tentazione che attraversa la Chiesa in ogni epoca, compresa la nostra. Una pretesa che - come ha detto Papa Francesco alla Chiesa italiana - «ci porta ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. Dà la sicurezza di sentirsi superiori. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzione in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare».
Allora, essere tralci innestati nella vite, essere credenti che «rimangono» nel Signore vuol dire essere una «Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difesa per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di San Paolo: "Mi sono fatto debole per i deboli per guadagnare i deboli, mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno" (1Cor 9,22)» (Papa Francesco).

 

Il «rimanere» (sette volte nel brano evangelico) nel Signore non significa un passivo adattarsi a una condizione in cui ci si trova, ma indica una dimensione dinamica, perché si riferisce alla maturità del rapporto di fede e di amore da avere, come credenti, con il Signore. In altre parole, se il «rimanere» è espressione della relazione di amore per il Signore, tale esperienza non deve essere di un momento, ma deve diventare relazione, storia, proprio attraverso l'azione del «rimanere». Rimanere dentro l'esperienza di amore, al di là di un sentire immediato, è un perseverare nella fede, trovando altri "appigli" al sentimento di comunione, che non sia un sentire immediato spontaneo: esperienza personale, interiore e duratura con il Signore.

 

Alberto Vianello

 

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