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Umanità che diventa fede

Briciole dalla mensa - 4° Domenica di Avvento (anno A) - 22 dicembre 2019

 

LETTURE

Is 7,10-14   Sal 23   Rm 1,1-7   Mt 1,18-24

 

COMMENTO

L'Avvento ci annuncia la venuta del Signore; nella quarta domenica è la sua venuta nella carne: nella discendenza regale di Israele, profetizzata da Isaia (prima Lettura), «dal seme di Davide secondo la carne», promessa dalle Scritture che si realizza (seconda Lettura), nella nascita di un figlio da Maria per opera dello Spirito Santo (Vangelo).
L'annuncio di questa venuta richiede innanzitutto obbedienza: il re Acaz non la dimostra, rifiutando di chiedere a Dio un segno da Lui offerto, perché poi l'avrebbe impegnato con il Signore (prima Lettura); «l'obbedienza della fede» è lo scopo della missione di Paolo, nella quale egli annunzia Gesù Cristo (seconda Lettura); Giuseppe crede all'annuncio dell'Angelo e obbedisce prendendo Maria come sua sposa (Vangelo). La fede viene dall'ascolto-obbedienza (cfr. Rm 10,17), e l'obbedienza è espressione del fatto che si crede: perché l'obbedienza non è una sottomissione, ma un dare credito a Colui nel quale si crede. Io non so se ho effettivamente fede, ma devo riconoscere che ogni volta che mi sono fidato di Dio e non di me stesso e ho obbedito, la mia vita si è aperta, inevitabilmente e infallibilmente.

 

Per ascoltare e ubbidire bisogna fare silenzio. Giuseppe ne è la prova più chiara. In tutto il Vangelo egli non dice una sola parola, ma fa sì che la Parola indirizzi decisamente e inaspettatamente la sua vita. Il vero silenzio non è taciturnità: è frutto di un profondo lavoro interiore, perché se non si sa far tacere i pensieri più istintivi non si è capaci poi di tacere nelle parole e ascoltare quelle degli altri. Il silenzio è poi frutto dell'umiltà, che non è appannaggio dei caratteri deboli né consiste in un io minimo. La vera umiltà sta in chi non si riferisce a se stesso come a fonte di sapere, ma si adopera in un'instancabile ricerca. Già per la tradizione ebraica questa era la chiave per interpretare la Scrittura: non smettere mai di ricercare.
Oggi le persone si dichiarano incerte e disorientate, ma appena viene fuori qualche tema sociale o politico subito la gente parte con le sue affermazioni: «Io penso che…». Ma il tuo pensiero dove si è formato, quale effettiva fatica c'è dietro di impegno ad approfondire e conoscere?! In effetti, ha determinato la storia della salvezza molto più il non sapere di Giuseppe e la sua ricerca, che la pretesa di sapere prevaricatrice e violenta dei capi religiosi di Israele

 

La qualità che il Vangelo attribuisce a Giuseppe è di essere «giusto». Ma si può essere giusti e spietati, come il servo al quale il padrone ha condonato un grande debito, ma lui non vuole dilazionare la piccolissima somma che gli deve un altro servo (cfr. Mt 18,23-35). Invece Giuseppe vuol essere giusto e umano. Di per sé le leggi nascono per mettere dei limiti al potere e alla violenza di alcuni, così da garantire i più deboli. Nascono, perciò, da un fine di umanità, ma sono usate, anche nella Chiesa, con disumanità: per condannare ed escludere.
Giuseppe, invece, vuole essere giusto e trattare con tutta la cura e l'umanità possibili la sua sposa Maria. Ma si domanda se egli non debba lasciar spazio ad una giustizia più grande: quella del Signore. La sua giustizia lo interroga su quale ruolo egli possa ancora rivestire accanto a Maria. Tra loro c'è una storia d'amore, che stava per giungere a coronamento con l'unione sponsale. Per l'uomo giusto, la gravidanza di Maria non è un motivo di «ripudio», nemmeno «in segreto» (non sappiamo bene il significato letterale delle parole così tradotte, perché non vengono usate altrove): invece Giuseppe si preoccupa di comprendere qual è il maggior bene per Maria che egli le possa fare. La sua giustizia, tutta intessuta di attenzione umana per l'altro, porta Giuseppe ad una presa di coscienza (è quello che Vangelo rappresenta con l'angelo che gli appare in sogno): ciò che avviene in Maria è troppo bello e troppo grande perché lui possa averne un ruolo. Il giusto si apre alla fede perché ha coscienza dei suoi limiti e non vuole intralciare l'opera di Dio con le pretese per se stesso.

 

Invece, questo povero falegname di Nazaret è discendente di Abramo e di Davide; e Dio è libero di essere fedele alle sue promesse con loro. Ad Abramo aveva detto: «Ti darò una discendenza come le stelle del cielo». E questa discendenza è un unico uomo, suo Figlio, ma nel quale tutti gli uomini sono chiamati a riconoscersi. Mentre a Davide aveva garantito un discendente che avrebbe costruito una abitazione per Dio: questa è il corpo umano, crocifisso e risorto, del Figlio di Dio. Quindi l'azione dello Spirito Santo in Maria genererà un bambino che sarà figlio di queste promesse divine: Giuseppe deve perciò assumerne la paternità per permettere che esse siano dette da questo natale. Questa è la coscienza di fede che deve essere maturata in questo uomo giusto.
E Giuseppe doveva dare il nome al Figlio di Dio. Il nome più bello perché chiunque lo invocherà, come ci insegna il ladrone in croce, troverà salvezza e vita piena. Un nome con il quale Dio depone definitivamente qualsiasi veste di magnificenza e di grandezza, per riversarle tutte sulla sua creazione, e su quel punto piccolo e infinito che è il grembo di Maria.
Perciò, aver fede oggi, comporta il fare come Giuseppe: assumere i propri legami d'amore dopo che li si è riconosciuti trasfigurati dalla presenza e dall'azione del Signore. Per poi dare, in questo modo, lo spessore della storia umana alla salvezza divina. Siamo tutti dei Giuseppe e dei Maria che devono dare umanità all'opera divina di salvezza.

 

Alberto Vianello

 

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