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Sperare oltre il confine

Briciole dalla mensa - 3° Domenica di Pasqua (anno A) - 26 aprile 2020

 

LETTURE

At 2,14.22-33   Sal 15   1Pt 1,17-21   Lc 24,13-35

 

COMMENTO

 

Il Risorto fa il buon Pastore che va a raccogliere le sue pecore disperse: così si fa compagno di strada e poi si rivela a due discepoli che, delusi e amareggiati, stanno abbandonando Gerusalemme e la comunità dopo la Pasqua del loro Signore. È l'infinita pazienza del Tessitore, che ricuce gli strappi al tessuto della fede che la sua vicenda provoca, allora come oggi.
«Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo». Facciamo fatica a riconoscere il Signore in un compagno di strada, soprattutto quando il nostro percorso è fatto di speranze svanite. Vorremmo che Lui fosse colui che ci libera da tutte le fatiche e i fallimenti umani, che ci desse immediata pienezza e piacere della vita. Quando siamo smarriti, fatichiamo a sentirlo accanto a noi; ancor più se crediamo - come i due di Emmaus - che sia Lui la causa delle nostre disillusioni.

 

Gesù li interroga sul loro parlarsi lungo la strada: non solo si mette in ascolto, ma vuole anche provocare il loro esprimersi. Stare davanti al Signore, anche se non lo "sentiamo", deve sentirci suscitati in ciò che ci preme nella vita e portati ad esprimerlo: la preghiera autentica è quella che provoca la vera nostra  umanità davanti a Lui, ed è proprio ciò che il Signore cerca in noi«Si fermarono con il volto triste. "Solo tu sei forestiero a Gerusalemme. Non sai ciò che vi è accaduto?"». L'estraneità del pellegrino che cammina con i due uomini suscita tutta la loro tristezza: spesso, quello che ci addolora più di tutto è la mancanza di condivisione, da parte degli altri, del nostro profondo sentire. Così, con questa domanda, Gesù sembra acuire la loro sofferenza, facendogliela rivivere attraverso il racconto e ponendosi come un lontano estraneo rispetto al loro vissuto.
In verità, Gesù vuole mostrare ai due di Emmaus, attraverso le loro stesse parole, quanto la loro conoscenza degli avvenimenti sia, in verità, profondamente lontana dalla realtà, perché priva di fede. Infatti Cleopa fa un fedele e serio resoconto dei fatti: riconosce la grandezza di Gesù («profeta potente in opere e in parole») e quello che ha subito ad opera dei «nostri capi». Ma non sa vedere un oltre, non sa riconoscere qualcosa di altro. Gesù non è stato semplicemente un Maestro che ha insegnato una morale, un Profeta che ha fornito delle ricette spirituali. Gesù ha voluto seminare in noi il germe della vita eterna nella risurrezione della nostra umanità, attraverso la sua risurrezione. La Chiesa che predica solo la morale (e solo una parte della morale: quella sessuale, non quella economica) e pratica solo devozioni ("assistere" più che "partecipare") sa soltanto tenere in vita anacronistiche tradizioni religiose.
Invece Gesù è venuto a creare in ciascun uomo proprio ciò che i due di Emmaus hanno invece perduto, la speranza: «Noi speravamo che vi fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni». Mi pare che sia tragicamente sbagliato farsi prendere dall'idea che Dio, in Gesù Cristo, crei in noi delle belle aspettative, che poi il limite e la povertà del vivere umano facciano inesorabilmente cadere: illusi e poi abbandonati. Invece, ogni volta che un uomo non si è accontentato di ciò che religiosamente ci si aspettava da Dio, ma ha sperato oltre, la storia della salvezza ha fatto un balzo in avanti: pensiamo ad Abramo, a Mosé, a Giobbe. Pensiamo appunto a Gesù: Egli ha passato tutta la sua esistenza terrena ponendo i segni e le parole che facevano sperare in un mondo altro, al quale Lui stesso si affidava, sperando la risurrezione ad opera del Padre, dopo che gli uomini gli avrebbero tolto la vita. Non basta sperare, se la misura della speranza è solo umana: bisogna sperare «in Dio» (seconda Lettura).

 

«Stolti e lenti di cuore»: il rimprovero di Gesù vuole mettere in evidenza che i discepoli avevano tutti i motivi e i mezzi per credere nella risurrezione. La fede non è un arrampicarsi sugli specchi: abbiamo la parola di Dio, che ci introduce a sperimentare il mistero di morte e risurrezione di Cristo. In essa non troviamo soltanto dei testi "formali" che ne parlano: tutta la Scrittura ci rivela lo stile salvifico di Dio, che consiste nel coinvolgersi e impastarsi insieme all’uomo e alla sua fragilità, per liberarlo («Ho osservato la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo», Es 3,7s). La morte e la risurrezione di Gesù Cristo sono la perfezione di questo stile divino, che realizza la salvezza definitiva e universale.

 

Coinvolti dalle Scritture aperte su Gesù e sulla sua Pasqua da parte di questo compagno di cammino, i due di Emmaus sono spinti spontaneamente a invitarlo a rimanere con loro. E Gesù rimane facendosi pane spezzato, cioè Eucaristia: «Prese il pane, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista». Sono gli occhi della fede che si aprono: è ciò che l'Eucarestia provoca. Chi vi partecipa sa di essere cieco e incredulo come i due discepoli: vi si partecipa non tanto perché si ha fede, ma perché si ha bisogno di fede. Quando gli occhi della loro fede si aprono Gesù «divenne non manifesto a loro» (letteralmente): non sparisce, si rivela e si dona nel Sacramento, lì riconosciamo la sua presenza di Risorto. Non lo vediamo materialmente per riconoscerlo nella speranza della risurrezione.

 

Alberto Vianello

 

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