Briciole dalla mensa - 1° Domenica di Avvento (anno A) - 30 novembre 2025
LETTURE
Is 2,1-5 Sal 121 Rm 13,11-14 Mt 24,37-44
COMMENTO
Ho fatto fatica, questa settimana, a scrivere questi semplici appunti. Confesso che ho il cuore appesantito per ciò che accade nel mondo, tra l’indifferenza generale. Alle guerre ci stiamo ormai abituando e alle recenti elezioni regionali sono andati a votare meno del 40% degli elettori. E anche i nostri linguaggi, che vorrebbero spiegare le cose, interpretarle, aggredirle, sono spesso ridondanti ed enfatici, sanno di vecchio. Ad ogni cambio di stagione rischiamo di ripetere frasi che hanno una parvenza di oggettività, ma che sono ormai logore, che non mordono più la carne di chi ascolta.
Ma forse non siamo messi meglio nel linguaggio della Chiesa. Iniziamo un nuovo anno liturgico ma anche parole come avvento, salvezza, incarnazione, che rimangono parole fondamentali nel linguaggio religioso, sono diventate parole di una lingua straniera presso l’uomo contemporaneo.
L’Avvento «è un tempo vissuto sotto il segno della venuta del Signore: della prima “venuta storica”, che inaugura il tempo della salvezza, e della seconda «venuta escatologica», che ne sarà il compimento. La prima è fondamento della seconda e la seconda è il suo coronamento. Due venute reali, due eventi storici strettamente connessi» (Messale festivo, San Paolo, Milano 2008, pag. 243). Parole teologicamente vere, ma distanti da un linguaggio comune.
Per quanto riguarda la prima “venuta” è triste constatare come il Natale sia stato scippato da chi vende panettoni e spumante e anche dall’inconsistenza del nostro annuncio evangelico. Tutto si riduce ormai alle cantilene natalizie, alle luminarie lungo i viali dei negozi, in una massiccia invasione di offerte dei centri commerciali. Sulle nostre strade le luminarie le hanno poste già a metà novembre e i supermercati sovrabbondano da un pezzo di montagne di panettoni, cioccolato e quant’altro. Il Bambino rimane un pretesto, ucciso ancora prima di nascere, dalla violenza persuasiva e narcotizzante del mercato. Ho sentito che da qualche parte si organizzano feste “trenta giorni prima di natale”, per farsi gli auguri e scambiarsi i regali. Poi, a Natale, si va in vacanza. Quando va bene organizziamo una colletta per un ente benefico, o portiamo alla Caritas gli abiti usati, badando bene però di non lasciarci coinvolgere in azioni di giustizia e di reale solidarietà con i poveri. Il Natale rimane un momento, non una scelta di vita, una visione del mondo, l’incontro con un Dio che si fa uomo.
E l’attesa del suo ritorno, la sua “venuta escatologica”? Quelli che lo dovrebbero attendere hanno altro di cui occuparsi, ritenuto molto più urgente . Così l’amore e la fede si spengono ed essere cristiani diventa una cosa del tutto irrilevante. Vuoto a perdere. I cristiani delle prime comunità pregavano con insistenza: «Vieni, Signore Gesù!». Noi invece lo preghiamo di non venire, di allontanarsi, perché abbiamo altri progetti da coltivare: se mai ci fosse un Dio, deve rimanere sullo sfondo, di riserva. Non si sa mai.
Intanto nelle ultime settimane ancora centinaia di donne uomini e bambini sono morti a causa delle nostre guerre “intelligenti” sparse su tutta la terra. A Gaza i bambini continuano a morire e in Sudan c’è una carneficina di cui nessuno parla. Qualche settimana fa il vescovo di Napoli così avvertiva i potenti: «La guerra è l’unico affare in cui investiamo la nostra umanità per ricavarne cenere. Ogni proiettile è già previsto nei fogli di calcolo di chi guadagna sulle macerie. L’umano muore due volte: quando esplode la bomba e quando il suo valore viene tradotto in utile. Finché una bomba varrà più di un abbraccio, saremo smarriti. Finché le armi detteranno l’agenda, la pace sembrerà follia». Il Natale è un abbraccio, non un’arma puntata addosso.
É anche per questo, avendo il cuore ferito, che ho fatto fatica, questa settimana, a scrivere. Eppure il profeta Isaia ci avverte: «Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà sulla cima dei monti e si innalzerà sopra i colli». Il monte del Signore si innalzerà sopra il vuoto dominio del mercato e della propaganda. Sopra l’indifferenza di molti. «Ad esso affluiranno tutte le genti».
Questa nostra umanità, che oggi vive un tempo di smarrimento, di solitudine, di paura, di estraniamento, troverà di nuovo la direzione di marcia, avrà ancora la forza di camminare lungo il difficile sentiero della giustizia e della pace. Profeta è colui che ha il coraggio della speranza: «Verranno giorni». «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci». Isaia arriva alla provocazione. Egli vede sorgere tempi di pace, come una nuova alba, quando il mondo sembrava essere avvolto dalla tenebra più fitta.
Oggi «l’arte della guerra» si insegna ancora e si pratica ovunque. Con l’insaziabile soddisfazione dei mercanti di morte. É giunto il tempo di reagire, di alzare la voce, come il profeta Isaia. Questo è Avvento.
Al profeta risponde l’apostolo Paolo: «Consapevoli del momento». Non c’è più tempo per aspettare ancora. Dobbiamo «svegliarci dal sonno» perché «il giorno è vicino». Ora è tempo di agire, indossando «le armi della luce».
Vorrei consegnarvi tre impegni – che sono anche tre doni di grazia – per questo tempo di Avvento. Innanzitutto dobbiamo riscoprire perché ci diciamo cristiani. Non si può esserlo se continuamente abbassiamo l’asticella dell’impegno e annacquiamo la forza del Vangelo. Un vino annacquato non lo compra nessuno.
In secondo luogo è importante che noi ci sentiamo amati. «Spero che tante persone abbiano saputo di essere molto amate da Gesù e si siano lasciate abbracciare da lui», scriveva papa Francesco. Sì, essere cristiani è, prima di tutto, lasciarsi portare da questo abbraccio, in un incessante pellegrinaggio di fiducia.
Infine, per tutti noi credenti, si tratta di essere docili all’azione dello Spirito Santo in noi, che è come un fuoco che arde. La Chiesa è il Vangelo, è l’opera di Cristo. Non è un cammino di idee, uno strumento per affermarle. E nella Chiesa le cose entrano nel tempo, quando il tempo è maturo.
Non avvenga per noi quello che accadde nei tempi di Noè: «nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e li travolse tutti». La tragedia, ieri e anche oggi, è di «non accorgersi di nulla»: far finta di non vedere lo straniero, il povero, l’ammalato; far finta di non vedere chi vende armi e droga, chi pratica la menzogna, chi corrompe l’innocenza dei bambini, chi violenta e uccide le donne…tanto, abbiamo altro da fare, di più urgente.
E poi, non bastano le processioni con madonne e stendardi: «Voi tenetevi pronti». Vivere l’Avvento è abitare il tempo con responsabilità, con infinita pazienza, dilatando gli spazi di un amore che sa accogliere i poveri e i piccoli, lo straniero e l’ammalato, e rimanendo disponibili alle sorprese di Dio.
Il Signore è alla porta e bussa. Se qualcuno ascolta la sua voce e gli apre, egli verrà da lui e prenderà posto a tavola assieme a lui. E la casa si riempirà del suo profumo.
Avvento: spalancare le porte a Cristo e accoglierlo in tutti i “piccoli” della terra.
Giorgio Scatto
Termina l’anno liturgico, la storia si conclude, giù il sipario. Altro annuncio terrificante. Anche i brani del Vangelo della settimana in corso parlano della fine e delle fasi terribili che la precedono. Segni dal cielo, crollano le fondamenta della terra mentre i popoli tanto per tenersi occupati non troveranno di meglio che farsi la guerra. Apocalisse. Perché la liturgia ci propone queste scene, per tenerci bassi, nella paura o perché è così? Anche Gesù ne parla a quelli che si compiacevano delle belle pietre del tempio.
Eppure Gesù parla di cieli nuovi e terra nuova dove regnano giustizia e pace. Anche Isaia parla di pace come di un ‘esigenza ricorrente, un’idea innata, un archetipo dell’anima, un desiderio sorgente dal profondo’. Le beatitudini sono riservate a quelli che anticipano quel futuro. Vivono di aneliti, di realtà vere e lontane come utopie. Ed è una sapienza che sfugge al mondo, alla politica, alla pratica comune. Le beatitudini sono riservate a quelli che vedono il mondo come dovrebbe essere e mal si adattano all’ordine delle cose mondane, alle logiche sottese. Essi sanno che il mondo se va avanti con le sue storie va a sbattere e gridano come Giovanni il Battista, nel deserto.
La fine ha carattere fisico, astronomico. Il sole si consuma, esploderà. Un’estinzione di massa è già avvenuta quando la terra era abitata da rettili… L’idea della fine è inscritta nel profondo, anch’essa un archetipo e ritorna nella percezione del disordine con cui noi stessi mettiamo il mondo a soqquadro.
Gesù ne parla: state attenti voi che vi occupate delle cose di quaggiù cercandovi la sistemazione più comoda. Badate ai fatti vostri, vi ammogliate, comprate e vendete, cercate il divertimento e la distrazione, accumulate e badate al pil e ai commerci, alle terre rare per farne cip. ‘E ciop’. L’idea della fine è iscritta nel possesso. Perciò non basta mai, Quel che è destinato a perire è anche causa di perdizione.
Il Vangelo annuncia: c’è dell’altro. Se non lo attendete, se non sale la curiosità, se non ne fate ricerca, ve lo perdete. C’è una realtà che promette di non passare.
L’Avvento si snoda per un mese tra annunci della caducità di questo mondo (cosa che non richiede un atto di fede), e l’annuncio di un’alternativa che mentre regge un modo più sensato di coabitare la terra, si protende verso cieli nuovi ed una nuova terra. “Solo tu hai parole di vita eterna”, dice Pietro. La fine segna un nuovo inizio.
Da che dura la vita sulla terra, più volte c’è stata la ‘fine del mondo’. Pazienza per i dinosauri. Poi il diluvio e pazienza anche per quelli che si prendevano gioco di Noè che costruiva un barcone sui monti. E la storia più recente? Il crollo degli imperi e di Roma… Dalla fine nasce sempre un principio. Un ordine nuovo, subito vecchio.
Ma che dalla fine nasca una realtà nuova vale anche a riguardo dell’esistenza personale. Dice san Paolo: “È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità”. 1 Cor 15. Le parole di Gesù non legittimano l’incupimento, la disperazione ma la speranza in un mondo nuovo, di una vita che riprende in un’altra forma, in un’altra pace in vista della quale già su questa terra dice il modo migliore per abitarla.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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