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Solo l'amore confessa la fede

Briciole dalla mensa - 4° Domenica T.O. (anno B) - 28 gennaio 2024

 

LETTURE

Dt 18,15-20   Sal 94   1Cor 7,32-35   Mc 1,21-28

 

COMMENTO

Provo a immaginare di essere fra la gente presente nella sinagoga di Cafarnao. Ogni sabato qualcuno si alzava, prendeva il rotolo, lo apriva, leggeva, e poi insegnava. Quante parole, anche oggi, nella liturgia, ma sono spesso ripetitive, vecchie, logorate, non sono «parole che fanno viva la vita» (Gv 6,68). Ma quel sabato, nella sinagoga, avvenne una cosa diversa, quando Gesù si alzò a insegnare: «Erano stupiti, perché insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi». Eppure gli scribi avevano tutta l'autorità religiosa, ma il loro insegnamento non faceva viva la vita. Erano fermi alle leggi, all'interpretazione delle leggi. Erano parole che non mettevano in movimento nessuno. Parole da cui salvarsi oppure parole che salvano? Enorme differenza! Parole dette dall'autorità o parole che hanno dentro l'autorità?

 

Dato che il Vangelo di Marco ci riferisce lo stupore della gente presente nella sinagoga quel sabato sia all'inizio del brano che alla sua conclusione, mi permetto di interpretare che la guarigione dell'indemoniato sia come una esemplificazione di questa parola di autorità.
La prima Lettura ci suggerisce che nelle parole di Gesù c'è il brivido della profezia, la passione del profeta. Mosé è presentato come un grande profeta, tanto che Dio promette di suscitare, in futuro, un profeta grande come lui, e sarà Gesù. Dunque bisogna saper parlare come i profeti. Perché i profeti non sono aridi elencatori di norme. Come Mosé, sono dentro il cammino di un popolo, dentro la storia degli uomini e delle donne del loro tempo. Per questo il Deuteronomio chiama Mosé profeta: Mosé non era solo parole, era cammino. Dunque le parole con l'autorità sono le parole che aprono nuovi cammini, suscitano energie, sostengono percorsi, liberano.
E quel sabato la gente ascolta da quel rabbi di Nazaret parole che accadono: «Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». E succede la liberazione. Quando è la parola di Dio, avviene la liberazione.

 

Capita ormai regolarmente che, quando in comunità commentiamo insieme questo brano evangelico, siamo portati a sottolineare il fatto che quell'uomo, «posseduto da uno spirito impuro», se ne stesse tranquillamente lì: nella sinagoga, luogo di preghiera della comunità del Signore, di sabato, durante il culto nel giorno del Signore. Tutto questo contesto religioso non lo disturbava, non lo sconvolgeva: un indemoniato! Una liturgia innocua, incapace di scomodare addirittura il mondo opposto e contrario a Dio. Addirittura quello spirito impuro dentro l'uomo sembrava stare bene in quel posto e in quel contesto, tanto da sentirsi "scomodato in casa sua" dalla presenza e dall'insegnamento di Gesù: «Sei venuto a rovinarci?».
Con i nostri termini possiamo dire che quell'uomo, che frequentava regolarmente il luogo santo e il suo culto, era afflitto da un male spirituale. Infatti, dimostra di conoscere perfettamente Gesù e lo confessa in modo corretto e ortodosso: «Io so chi tu sei: il santo di Dio!». Però non vuole avere assolutamente niente a che fare con Lui: «Che cosa vuoi da noi!»; letteralmente: «Che cosa (c'è) tra noi e te?» Sta qui la negatività dell'atteggiamento: si confessa rettamente la fede, ma non ci si coinvolge assolutamente nella sequela di Cristo fino alla fine.

 

Invece, una sequela autentica deve andare fino a sotto la croce, perché è lì, in bocca al centurione - il quale vede quell'amore crocifisso giunto fino alla fine - che è possibile la vera confessione di fede: «Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). Solidarietà, accoglienza illimitata, comunione di vita, vicinanza agli ultimi, primato di attenzione, misericordia per gli esclusi, cura dei più deboli: questo è il cammino di fede con Gesù, fin sotto la croce. La fede non è credere a norme morali e a una massa di dogmi: è fare come ha fatto Gesù. Capita che in chiesa si confessi questo Gesù Cristo, ma per le strade, nella società, se ne viva, poi, l’opposto; perché si sostiene chi garantisce i propri privilegi, chi non vuole aiutare gli altri, chi premia un sistema a vantaggio di chi ha e sfavorisce chi non ha. «Che cosa c'è tra noi e te, Gesù Nazareno?».

 

Per questo Gesù "esorcizza" l'uomo ordinando allo spirito che lo possedeva di «tacere», e quindi di uscire da lui. Gli vieta quella professione di fede solo a parole e non nei fatti. Come poi Gesù rinvierà alla misericordia di Dio lo scandalo dei farisei di fronte alla sua comunione di mensa con i peccatori.
Sempre in ordine alla guarigione dell'indemoniato, mi colpisce come ci si soffermi più sull'"effetto" che viene provocato sullo spirito impuro uscendo dall'uomo e meno sull’uomo stesso. Infatti, in altri miracoli del genere, tutta l'attenzione è posta invece sulla persona terribilmente straziata da ciò che lo possedeva (cfr. Mc 9,14-27). Qui, invece, si dice che è lo spirito che «grida forte», quindi «esce» dall'uomo; quindi non si parla più dell’uomo. È la sinagoga e il suo rito del sabato, culmine della relazione con Dio, che vengono liberati da una fede solo a parole, senza il buon annuncio di un Dio che si è fatto vicino e solidale con l'uomo per aprirlo al suo Regno d'amore. Da questa mancanza ci libera l'insegnamento di Gesù.

 

Alberto Vianello

 

 

Qui affiora il carattere rigoroso e zelante dell’ex fariseo Paolo, che ci costringe a qualche contorsione. Bisogna capirlo, dal suo punto di vista i tempi sono stretti, il mistero nascosto nei secoli è svelato, non c’è nulla da aggiungere… La fine del tempo è prossima. Cristo sta per tornare. “Chi è sposato faccia come se non lo fosse…”, era il brano di domenica scorsa. Preoccupiamoci di piacere a Dio.
Ma le cose non sono andate così, la storia è ricominciata e questo è già un nuovo mistero. Lo stesso Paolo con gli anni si rese conto che la sua visione escatologica era da rivedere, la fine non arrivava. Si doveva dedurre un diverso rapporto tra il vangelo e la storia, un altro insegnamento sul matrimonio e venne infatti la lettera agli Efesini. “Chi non ama il prossimo che vede non può amare Dio che non vede”, insegnava Giovanni nella prima Lettera. E dal Vangelo sappiamo che solo in Dio è possibile amare il prossimo, moglie, marito e tutto il resto. Controprova ne è che scemando il senso di Dio scema l’amore nella coppia, non ci si sposa, non c’è neppure motivo di vivere insieme perché si sta bene da soli, col gatto o col cagnolino col fiocco in testa, tale che non ha più senso dire ‘che vita da cani!’. Ne consegue che le relazioni prossime vanno custodite e prestare attenzione all’altro fa parte del ‘dovere’ coniugale e in ciò si serve Dio. Se no non si spiega perché “maschio e femmina li creò” (Gen 1,28).
Da Paolo prendiamo comunque il sollecito a mettere in ordine l’elenco: prima il Signore e il resto a seguire.

 

Perché, ci insegna Marco, Egli è uno che parla con ‘autorità’, non come uno scriba, un teologo che tutt’al più commenta la Scrittura molto meglio di quanto tenta di fare il sottoscritto, al confronto ‘mosca cavallina’. Che bello però entrare dentro questi significati. La parola di Gesù ‘faceva’, creava, era la sua persona stessa che agiva nello spazio e nel tempo… Agiva o agisce?

 

La gente, racconta Marco, ne era meravigliata ed attratta, perché egli ‘poteva’ quel che diceva e prova ne fu l’esorcismo immediato del posseduto cui il demonio dava una conoscenza sovrumana circa la natura di Gesù. Di ciò gli astanti non si rendevano conto. Anche i discepoli sulla barca furono presi da timore e dicevano: “Chi è mai costui al quale il vento e il mare obbediscono?” (Mt 8, 27). Sapranno chi è Gesù solo a risurrezione avvenuta. E non è detto che si sia capito tutto di Lui. Si dice infatti che la rivelazione non è completa o, per quanto sia stato detto tutto, ce ne rimane molto da capire. “Lo Spirito vi rivelerà ogni cosa” (Gv 14,27), a poco a poco secondo la misura della fede e dell’amore, poiché solo chi ama conosce e ciò vale dappertutto. Ed è esperienza di tutti coloro che lo seguono anche oggi: siamo sempre cercatori, sempre discepoli in debito di conversione. L’indemoniato, o chi per lui, non aveva bisogno di conversione per sapere chi fosse Gesù ma non era buona cosa. Questo ‘sapere’ vale come una condanna poiché repulsivo. È preferibile mille volte conoscere Gesù per la via dell’amore: da dargli, ché per quello ricevuto basta arrendersi all’evidenza dei racconti evangelici.

 

Valerio Febei e Rita

 

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