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Reso Figlio nei figli

Briciole dalla mensa - Festa del Battesimo del Signore (anno A) - 8 gennaio 2023

 

LETTURE

Is 42,1-4.6-7   Sal 28   At 10,34-38   Mt 3,13-17

 

COMMENTO

«Ecco il mio Servo»: nella Bibbia è un titolo onorifico, riservato alle grandi personalità dell’AT, scelte da Dio, a servizio del suo popolo, come Abramo, Mosé, Davide.

In questo primo dei famosi quattro carmi del Servo del Signore gli viene affidato un metodo nuovo per attuare la sua missione di annuncio della salvezza. Mentre i profeti precedenti annunciavano soprattutto il giudizio di Dio, egli deve predicare la grazia, perciò non ha bisogno di segni grandiosi. Anzi, rovescia tutte le condizioni, dando valore ai segni piccoli. Infatti, il servo non compie le azioni di spezzare una canna incrinata e di spegnere lo stoppino fumigante. Erano le azioni simboliche che l'araldo del Grande Re babilonese compiva quando decretava una condanna a morte.
Quindi il Servo del Signore non viene per giudicare e condannare, ma per dare vita.

 

Egli ha tutto il sostegno e il compiacimento del Signore, per questa sua opera di non condannare neppure ciò che è già destinato alla fine. Anzi, il Signore porrà «il suo spirito» sul Servo, perché si riconosca tutto il progetto e la volontà di Dio nel suo portare la grazia divina a ciò che dovrebbe essere condannato. «Ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni»: il legame vitale e amante di Dio con il suo popolo si manifesta, appunto, nella sua grazia, nel suo amore gratuito.
Ma se Dio è così misericordioso con ciò che è condannabile per la sua infedeltà, lo sarà - a maggior ragione - con coloro che non lo conoscono: le genti straniere. Se Dio non mi giudica e non mi condanna nella mia lontananza da Lui a causa del mio peccato, Egli non escluderà nessuno dei "lontani".
«Tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre». Non riconosco la grande misericordia che il Signore ha per me, se non so riconoscere e praticare la misericordia che Egli ha per tutti, soprattutto per i più lontani (cfr. Mt 18,23-35).

 

Il servo che il Signore ha eletto, di cui si compiace, sul quale pone il suo spirito è Gesù. Ed è proprio al momento del suo battesimo ad opera di Giovanni che si rivela tale riconoscimento divino.
Matteo racconta che Giovanni vorrebbe impedire che Gesù riceva il suo battesimo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni a me?». Ma Gesù risponde che, ricevendo il battesimo da Giovanni, loro due compiono «ogni giustizia». Il battesimo di Giovanni era un riconoscimento del proprio peccato, e una richiesta e un impegno di conversione. E Paolo dice: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in Lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21). Gesù non ha commesso peccato, perché il peccato non sarebbe stata una maggiore solidarietà con noi, e invece una complicità con il nostro male. Ma Gesù ha vissuto tutte le nostre debolezze conseguenti al peccato. È stato condannato come peccatore: eretico, bestemmiatore e rivoluzionario. Nonostante che l'unica autorità chiamata al giudizio, il governatore romano, avesse dichiarato per tre volte la sua innocenza. Ma Dio così «lo ha fatto peccato»: lo ha fatto di tanto amore, capace di farsi così vicino e unito fino a condividere la medesima sorte dell'uomo condannato.
Così, per Gesù, ricevere il battesimo di Giovanni è segno di ciò che rappresenterà la sua croce: solidarietà gratuita e senza confini con la condizione umana peccatrice.

 

Ed è proprio in questa condizione - che Gesù riveste al momento del battesimo - che avviene l'apertura dei cieli, la discesa dello Spirito, e le parole di riconoscimento e compiacimento del Padre. Proprio quando il Figlio si riveste di peccato, per rivestire di salvezza l'uomo!
Quindi Gesù fa qui esplicitamente l'esperienza di essere Figlio del Padre. Significativamente, viene citata la profezia di Isaia, ma il termine «Servo» viene sostituito con «Figlio», ed «eletto» con «amato». È Figlio ed è amato dal Padre come Figlio proprio perché «non spezza una canna incrinata e non spegne uno stoppino della fiamma smorta». Non esegue le condanne decretate. E in questo si gioca tutto il suo essere Figlio amato.
Gesù ha vissuto trent'anni di vita normale. Un lungo tempo di "ascolto" dell'uomo, condividendone la condizione. In questo modo, lo ha capito in profondità, ne ha assunto radicalmente la parte, ne ha maturato una solidarietà indissolubile. A trent'anni, è risultato allora spontaneo, per Gesù, essere come tutti gli altri, dichiararsi non migliore, tanto da ricevere il battesimo di conversione per i peccati come tutti. Aveva coscienza di essere Figlio di Dio, ma lo ha vissuto da persona umana limitata e fragile. Ha atteso un riscatto, di cui il battesimo di Giovanni era richiesta. Ma un riscatto che fosse per tutti. Perché quel «salire» dalle acque, come nell'esodo dalla schiavitù del popolo di Israele, forse liberazione per tutti. Affinché quel «essere Figlio» fosse un riconoscimento per ciascuno, nessun uomo escluso, a partire da chi viene rifiutato dalla religione o dalla società. Reso Figlio nei figli.

 

Alberto Vianello

 

 

 

"Il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini…” (Fil 2,6). Paradossalmente si potrebbe dire che Gesù non venne ‘da Dio’ fra gli uomini, non fu neanche un primus inter pares, non venne come fratello maggiore anteponendo un ruolo che Giovanni stesso gli riconosce. Giovanni che ha l’occhio fino e vede oltre, che versava acqua sulle coscienze stanche e intese a cambiare, gli dice che no, non era per lui il passaggio per quella umiliazione. Come ha fatto Giovanni a capire? Siamo propensi a scivolare su questi passaggi e semmai a interpretarli in modo miracolistico. Ma questa può essere una lettura frettolosa e disimpegnata. Abbiamo facoltà di letture più sottili che è altro dal sentire ‘a pelle’ e oltrepassa l’intuito. Si tratta di facoltà introspettive di uno spirito educato, contemplativo, avvezzo cioè a guardare nel buio e non si contenta di rappresentazioni. La bellezza è bellezza, punto. Egli sta nelle cose con onestà ma non muore in esse, ha sempre una parte vigile, in attesa dell’Incontro. La nostalgia di Dio è implacabile e ogni altra cosa è inappagante. “Io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere…”, dice Giobbe (19,25). Insomma il dialogo con Dio, la preghiera si nutre anche di parole umane. E divine, i salmi per esempio.  Anche i nostri dialoghi possono dire la nostalgia del profondo e del vero, tra di noi.  “Finché non spunti il giorno” come scrive Pietro (2Pt 1,19).

“Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”. San Paolo spiega ai Filippesi che egli divenne uomo fra gli uomini, assunse la condizione di peccatore pur senza esserlo: come avrebbe potuto essere davvero solidale con noi? Non ci saremmo mai sollevati dalla colpa, che è la condanna del nostro stato inferiore. Gesù, da Dio che era, non segna la differenza con noi. Figurarsi se vanta la propria santità. Può mai colui che ama vantar qualcosa rispetto all’amato, aspettarsi una qualche ricompensa, un riconoscimento da qualche parte o non si sporcherà lui perché l’amato sia pulito? Non riterrà disdicevole sottolineare il suo gesto? Ora capita che si ritenga ovvia ed apprezzabile una prassi del genere fra noi, ma la cosa tende a complicarsi trasponendola sul piano della fede. Ma sarà che Gesù ha fatto proprio così? Per me? È difficile lasciarsi amare. Insomma ogni idea del passato o del presente di una divinità o di un principio, di un mazzabubù sopra di noi è superata. Egli ha assunto la condizione umana segnata dal peccato, dal tradimento ‘come se’ fosse stato lui a commetterlo. Ecco perché si fa battezzare come un peccatore consapevole. Viene in mente il canto del servo di Jahvé di Isaia 53, né più né meno.

Eppure noi andiamo verso di lui per chiedergli questo e quello come si chiede ad un Dio sopra di noi. Siamo creature e ci sta. Mi chiedo: non ci parla lui con il suo abbassamento, con il suo farsi simile a noi, soggetto al peso della carne, alla sofferenza? Se mi guardo mi pare che l’invocazione che porto sia quella di evitare il peso che egli ha liberamente scelto per essere simile a me, come me, mio fratello. Eppure da tutto ci salva.

Con ciò il Padre afferma: “In lui ho posto il mio compiacimento”. 

 

Valerio Febei e Rita

 

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