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Qual è la casa di Gesù?

Briciole dalla mensa - 10° Domenica T.O. (anno B) - 9 giugno 2024

 

LETTURE

Gen 3,9-15   Sal 129   2Cor 4,13-5,1   Mc 3,20-35

 

COMMENTO

 

La casa è la protagonista del Vangelo di questa domenica. Gesù si trova in una casa, e si raduna tanta gente. Gesù amava stare con le persone, soprattutto con i semplici, che non opponevano pregiudizi e resistenze alla sua rivelazione del Regno. Infatti il nostro brano subito introduce "i suoi" parenti, che sono andati a prenderlo, giudicandolo pazzo. Ci sono motivazioni diverse che possono giustificare questo comportamento dei suoi parenti. Dal punto di vista sociale, la vita errante di Gesù, insieme ai suoi discepoli, costituiva un danno economico per la famiglia: Gesù non dava il suo contributo di lavoro (sebbene avesse lavorato per trent'anni!) e, non sposandosi, non contribuiva a creare alleanze con altre famiglie, formando delle specie di clan, importanti per la vita di un nucleo parentale. Oltre a questo, il giudizio dei familiari esprime cecità e perbenismo. Gesù si esprime fuori casa e, fuori dal recinto delle convenienze solo per la famiglia, fuori del modo di pensare della semplice tradizione familiare, ed esprime un'apertura ad affetti e legami più ampi di quella cerchia ristretta.
E' un discorso che vale particolarmente per oggi, dove siamo molto nel pubblico, però ricondotti a un ristrettissimo privato, personale. È molto più raro l'impegno pubblico nel volontariato, nelle associazioni che mettono insieme le persone, nelle organizzazioni che operano per favorire le aggregazioni sociali.
Anche i rapporti di amicizia si fanno sempre più rari e sporadici, per non dire ridotti al solo interesse personale.
Impegnarsi per gli altri è un comportamento che i parenti di Gesù considerano sconveniente, tanto da essere venuti per porre fine ad esso. Marco riserva ad essi il verbo che userà quattro volte nel racconto della passione, per dire l'arresto di Gesù. Infatti gli esegeti lo traducono non con "prenderlo", ma con "impossessarsi di lui". Gesù, invece, vuole essere libero per essere a disposizione di tutti. Egli vive una appartenenza familiare più alta ("Tu sei mio Figlio", dichiara il Padre celeste al suo battesimo) ma non ristretta. Proprio perché appartiene alla famiglia di Dio, Gesù è venuto a dichiarare e a realizzare l'appartenenza di ogni persona alla paternità del Padre e al suo Regno di pace e di amore.

Gesù stesso, poi, allude ad una seconda casa. Quando "gli scribi, venuti da Gerusalemme", pervertono totalmente il senso del suo operare: attribuiscono al male le sue opere di bene. Egli risponde paragonando il mondo ad una casa dove opera Satana, che ne pretende di essere il padrone (cfr. LC 4,6). Gesù è uno più forte che entra in quella casa e opera come se fosse Lui il "padrone", in quanto vi porta ciò che lo contraddistingue: tutte le opere positive e, i frutti dello Spirito. Ma lo può fare solo perché è più forte di quel preteso padrone, e il suo fare il bene prova la libertà che Gesù ha nell'operarlo, in quanto ha reso impotente Satana.

Il detto sul non perdono dei peccati contro lo Spirito Santo non esprime un'eccezione o un limite al perdono divino e quindi alla sua misericordia: come se esistesse un male che è più forte del bene e dell'amore di Dio. Bestemmiare lo Spirito significa non riconoscerlo. Ma, negandolo, si finisce con il negare la sorgente stessa del perdono divino. Per questo motivo il peccato rimane irremissibile: è chi lo commette che si sottrae alla misericordia del Signore, non riconoscendo che essa è tutta opera dello Spirito.

La terza casa è ancora un luogo di raduno della folla intorno a Gesù, i parenti lo vengono a chiamare. C'è l'opposizione fra questi che stanno "fuori" e la gente che sta "dentro" intorno a Gesù. Talvolta si usano ancora questi concetti: chi sta "fuori" della Chiesa. Gesù afferma un'appartenenza che non è formale, ma è data solo della disponibilità all'ascolto della parola di Dio. Non ci sono delle appartenenze fisse, stabilite dalla corrispondenza da una dottrina o una morale. Ma solo un continuo e rinnovato ascolto della Parola che Gesù ci ha portato e donato nella sua carne, costituisce il vero senso dell'appartenenza.
Ed è bellissimo questo suo sentirsi legato alle persone che lo ascoltano. Possono essere anche lontane, provenienti da vite contraddittorie, segnate da tante fragilità e povertà, ma il loro ascolto le fa sentire, per Gesù, come "madre e fratelli". Lo scopo ultimo dell'opera del Cristo è questo: vicini o lontani, farci partecipi di un'unica famiglia che Lui realizza e lega con vincoli d'amore attraverso la sua Parola che è il Vangelo.

 

Alberto Vianello

 

Riprende il tempo ordinario, che scontato o banale non è. Nessun tempo lo è, men che meno quello liturgico che celebra la Parola e celebra chi le presta fede e l’ama. In realtà viviamo il tempo dello Spirito, ché la Pasqua e la Pentecoste sono date per sempre opera della Grazia guadagnataci dal Signore Gesù. Oso una parola audace: le fasi dell’anno liturgico non sono delle ‘sacre rappresentazioni’ inframezzate da tempi ‘ordinari’, ma memorie attive, memoriali in cui avviene quel che si celebra. La pentecoste è donata, la fede nel Corpo e sangue del Cristo, anche. Parentesi: mi vengono in mente le difficoltà infinite a credere nella presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. A domanda un prete rispose: “IO non so come Gesù faccia a stare nell’Ostia. Non è un problema mio, semmai è suo. Io so che c’è”. Ma noi abbiamo prove su prove concesse a preti che come noi erano fortemente dubbiosi… come è vero che la fede non è questioni di segni!

Va al sodo Paolo: “Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno”, in vista di un’abitazione non costruita da mani di uomo. Il tempo che viviamo è perciò un tempo di grazia e di rendimento di grazie, di promozione nei rapporti col mondo della benevolenza che ci è stata accordata. Per questo la vita cristiana è sempre vita nello Spirito.

Messo da parte il tesoro, oggi la Chiesa ripropone le tappe fondamentali della storia della salvezza per meditarne la relazione profonda con la vicenda singola di ogni uomo, ogni donna. Se qualcuno dovesse domandarci notizia della nostra antropologia, eccola. Ad un’esperienza archetipica di paradiso, di vita beata in rapporto alla nostra radice divina e all’orizzonte fraterno succede, non si sa come, una profonda distonia, come è in certi brani musicali in cui suoni disarmonici interrompono li motivo melodico (oso un altro esempio: Atom heart mother). Succede la paura, l’imbarazzo e la menzogna, Adamo incolpa Eva, Eva il serpente. Io c’entro poco. Nevrosi diremmo oggi tanto più grave quanto meno se ne riconosce la causa. La causa è cedere alla tentazione: chi può impe4dirmi di farmi dio di me stesso e delle cose ‘mie’? Abbiamo cancellato una fedeltà, una fede, un’alleanza, una certezza e siamo preda dell’ansia, del sospetto. “Ho avuto paura e mi sono nascosto perché nudo”. Chi ti ha fatto sapere che eri nudo?”. Eri nudo anche prima, ma tutto era pulito, santo, senza malizia. È cessata la relazione con me. Inizia lì, a fatica, la lenta ricostruzione del rapporto di amicizia e di familiarità in cui entrambi ‘dicono’ chi sono: l’uomo si rende più consapevole del limite e della follia e impara la responsabilità e Dio di essere veramente Padre, amante di una creatura imperfetta tale che più di così non si può essere Dio.

Riconsegnati alla relazione con lui, siamo anche ridonati ai legami di famiglia, di parentela e di amicizia, ma da Gesù in poi con un ordine di valori e di priorità senza il quale permane il disordine: Per amare qualcuno, cosa che pare doverosa, occorre prima amare il suo creatore, a lui rispondiamo dell’altro che sta con noi. Pare un limite al nostro amare, ma pare soltanto. Capisco, se mi ci metto, che per amare mia moglie devo amarla in Dio e secondo che lui comanda. Il primato è di Dio e in lui siamo resi tutti parenti. È un cammino intero di vita che la sapienza della Chiesa ci propone a poco a poco, un pane quotidiano al giorno.

 

Valerio Febei e Rita

 

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