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La sindrome dei pochi ma buoni

Briciole dalla mensa - 21° Domenica T.O. (anno C) - 24 agosto 2025

 

LETTURE

Is 66,18-21   Sal 116   Eb 12,5-7.11-13   Lc 13,22-30

 

COMMENTO
 

Incominciamo dalla lettera agli Ebrei. Nel nostro brano si parla più volte di “correzione”, e addirittura di “percosse” e si dice addirittura che esse sarebbero il segno che Dio ci ama e ci tratta come figli.  Noi viviamo in una società nella quale un figlio non accetta più di essere ripreso da un genitore, e questi, sempre più impacciati e maldestri di fronte ai loro figli che crescono troppo in fretta, non sanno più che parole usare: anzi, non hanno più parole. Muti sono i figli, e muti i loro genitori, entrambi prigionieri nel loro piccolo mondo di incomunicabilità.

Cerchiamo allora di capirci qualcosa da questo brano, apparentemente così inattuale e anche violento.

L’anonimo autore della Lettera agli Ebrei, dopo averci presentato una moltitudine di testimoni della fede, a cominciare dal patriarca Abramo, continua la sua riflessione presentandoci Gesù non più come modello di fede – lui sta all’origine della nostra fede, e la porta a compimento – ma come modello di perseveranza: «si sottopose alla croce», «ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori»; gli ascoltatori sono quindi invitati a «correre con perseveranza» dietro a lui dopo aver deposto «tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia». Lo scopo della corsa è raggiungere Gesù là dove egli è arrivato, portando la fede alla sua perfezione.  A questo punto l’autore rivolge ai suoi uditori un rimprovero: messi a confronto con Gesù che ha patito l’ostilità dei peccatori prima di sedere «alla destra del trono di Dio», essi non hanno ancora «resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato»; anzi, hanno già dimenticato l’esortazione rivolta a loro «come a figli»: sì, le prove della vita insegnano all’uomo la sapienza. I figli che non hanno mai vissuto l’esperienza della prova, della sconfitta, talvolta anche dell’umiliazione, saranno domani persone realizzate solo a metà, incapaci di affrontare la vita vera. I genitori che non accettano la ‘normalità’ dei loro figli, fatta anche della conoscenza del limite, della privazione, del porre loro degli argini, creeranno dei disadattati, dei prepotenti e dei violenti.

Il testo dei Proverbi citato dall’autore stabilisce un parallelismo tra «colui che egli ama» e «chiunque riconosce come figlio», il che significa che Dio stabilisce con noi una relazione d’amore, ci ama come un padre dovrebbe amare un figlio. E a proposito della «correzione» c’è da osservare che essa è la traduzione della parola «paideia», che nel greco classico ha il senso di «educazione», anche se occorre precisare che nel nostro testo troviamo una concezione ‘energica’ dell’educazione. In conclusione possiamo dire così: quando arriva la prova e la sofferenza siamo tentati di non trovare in essa alcuna utilità, alcun aspetto positivo, e quindi di scoraggiarci o addirittura di ribellarci. Il libro dei Proverbi ci aiuta invece a prendere coscienza che, attraverso le sofferenze e le prove, Dio realizza un’opera molto positiva di «educazione» attraverso la quale manifesta il suo amore paterno e rafforza la nostra relazione filiale con lui. Piuttosto, è l’assenza di prove che ci deve preoccupare, perché significherebbe rimanere “molli” e senza nervatura, depotenziati della nostra vera natura, privi di personalità. È scritto che Gesù, «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì» (Eb 5,8).

Dio ci educa «per il nostro bene, per farci partecipi della sua santità»; inoltre la prova superata produce «un frutto di pace e di giustizia» che rende la persona capace di relazioni armoniose e fraterne con gli altri.

«Perciò – dice l’autore – rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire».

L’uomo di fede è un viandante, un pellegrino di speranza.

 

Il brano di Isaia proposto per la liturgia odierna fa parte del “discorso escatologico” che troviamo nella terza e ultima parte del libro. È il capitolo finale. Leggiamo: «Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria». Dopo aver ricondotto il suo popolo dal duro esilio di Babilonia, il Signore dichiara la sua intenzione di manifestare la sua gloria a tutte le nazioni, non solo a Israele: una profezia che annuncia la futura inclusione di tutti i popoli nel piano della salvezza. Avete capito bene: tutti i popoli sono “popoli eletti”, chiamati a far parte di un’unica famiglia universale, destinata ad abitare in mitezza e pace la terra che Dio ha promesso a tutti i suoi figli. E la “Terra Promessa” è il mondo stesso, senza muri di separazione, che sono muri di odio e di vergogna.  Non solo: il Signore stesso manderà alcuni dei superstiti, tornati dall’esilio, verso i luoghi più lontani, dove nessuno ha mai sentito parlare di Dio e della sua gloria. Il popolo di Giuda e di Israele, scampato al massacro, ha un compito storico, una mission particolare: non quella di eliminare con la violenza gli altri popoli, come sta accadendo ora a Gaza, ma di condurli con loro, in pace: «Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore»: un versetto che, immaginando un corteo trionfale di popoli che convergono verso Gerusalemme, sottolinea ancora una volta l’unità del popolo di Dio e la sua chiamata universale all’adorazione.

Anche tra i popoli pagani il Signore prenderà alcuni per farli sacerdoti e leviti, per guidare la liturgia e il culto, sottolineando ancora una volta l’universalità della chiamata di Dio e l’importanza della diversità culturale nell’unica comunità di fede. Non so se oggi, nelle sinagoghe ebraiche, si leggono ancora queste profezie e, se si leggono, non so quale spazio possano occupare nelle menti e nei cuori degli israeliani. A vedere i fatti, nulla. Ma l’altro giorno, sulle piazze di Tell Aviv, c’erano più di cinquecentomila persone che manifestavano contro la guerra: se è vero che «la parola di Dio era rara in quei giorni e le visioni non erano frequenti», come leggiamo nel libro di Samuele, c’è più di qualcuno che non lascia «andare a vuoto una sola delle sue parole» (1Sam 3,1.19).

 

E noi, discepoli del Signore? Non possiamo presumere nulla: non siamo automaticamente nel recinto dei salvati. Ed è tempo perso andare alla conta: sono pochi o sono molti? Il Signore ci invita piuttosto a sforzarci di «entrare per la porta stretta»: non riesci ad entrare se vuoi portarti addosso una montagna di roba, tutte le tue cose, tutti i tuoi averi, tutti i tuoi titoli di presunta nobiltà. Anche il tuo orgoglio. È scritto: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Mc 10,25). La porta si chiuderà inesorabilmente davanti a noi. E sarà inutile gridare: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze». È come presumere che sia sufficiente “prendere messa”, fare la comunione, ascoltare la “predica”, per dirsi di essere dei bravi cristiani. E la giustizia? E l’amore per il fratello, per il povero, per lo straniero? E l’urgenza di segni di perdono e di riconciliazione? Con la presunzione di essere “bravi cristiani” solo attraverso una esteriore pratica di culto, possiamo diventare dei grandi «operatori di ingiustizia».

Potremo avere delle belle sorprese quando vedremo molti venire «da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e sedersi a mensa nel regno di Dio».

Spesso gli ultimi arrivano per primi.

 

Giorgio Scatto

monaco in Marango     

 

     

Poi bisogna vedere cosa intendesse quel tale con una domanda così esiziale e improvvisa. Gesù andava verso Gerusalemme, il solo viaggio secondo Luca. Mentre va spande a destra e a manca ‘e grazia su grazia’. Un tale, non un discepolo, gli pone una domanda che sente come un problema. Sono pochi quelli che si salvano, vero? Ma lui che avrà inteso per salvezza? Perché l’obiettivo è salvarsi, questo lo penseremmo anche oggi. Già, ma che vuol dire? I giudei si attendevano un messia liberatore. O, esistenzialmente, salvare l’anima? La persona è una non due cose in una, secondo gli ebrei. Oppure genericamente ‘io speriamo che me la cavo’, celebre sgrammaticatura scaramantica. Da cosa, allora? Dal male, dalla guerra, dalla peste? Mettiamoci anche dagli imprevisti che sprogrammano i progetti, i piani stabiliti, anche questo. Basta poco per straparlare: proprio adesso, non ci voleva, tutto all’aria, che disastro! Se poi c’è un colpevole, guai a lui! Fatti da parte, rompiscatole! Ma gli impedimenti vengono dal caso, o dall’alto. In questo caso anche gli atei se la prendono con il cielo lassù. Non sono da meno i ‘credenti’.

Ma l’imprevisto ‘è’ Dio: non viene come un ladro? La contraddizione segna la nostra impotenza. Scoprirsi alla mercé di eventi contrari per noi abituati a disporre di noi stessi è spiazzante. Ma lì  è possibile l’inizio di un dialogo. Tornano buone le parole della lettera agli Ebrei: Dio ci corregge attraverso i contrattempi, dei ‘no’, attraverso l’esperienza del limite. Ci corregge, ci educa, ci fa rientrare in noi cosicché non ci ostiniamo a pensare di lui come la causa della nostra frustrazione. È un padre. Allora da cosa ci salveremmo? Pietro stava per affogare: Signore, salvami! Dalla morte, ecco da cosa. Il contrattempo sia pur breve, è il segno della nostra impotenza e della sua parola. La causa remota del peccato è la paura della morte. Così la morte agisce: ‘la morte si sconta vivendo’, diceva con grande acume il poeta. Perciò solo la risurrezione è la salvezza.

Gesù non risponde alla lettera ma al senso: sono tanti o pochi, che importa? Ci si salva passando per la porta stretta, dove non passano i progetti, gli appetiti, i desideri, le programmazioni, gli acquisti… Se pure uno avesse modo di realizzare i suoi piani, se gli riuscisse di trovare soddisfazione in altri obiettivi, che gli gioverebbe? Il limite è una grande occasione, per noi e per Dio.

 

Persone fantasiose, a volte registi, scrittori (si) dilettano immaginando l’esistenza di misteriosi portali per altri monti, per le stelle, universi paralleli… Fantasie. Ma una porta per il regno di Dio c’è, ed è stretta, appunto.

Gesù dice: Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato.  La porta stretta è la porta della verità interiorizzata, ed è la via per la quale anche Dio passa.

Ungaretti mi dà solo lo spunto. Mai farei le pulci ad un tale poeta. ‘La morte si sconta vivendo’. Era la guerra, la solita follia dove la morte sparge anticipi agli stessi sopravvissuti.

 

Per stare però al vangelo della porta stretta, vorrei dire che non la morte ma la resurrezione si sconta vivendo. 

 

Valerio Febei Rita

 

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