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Ospitare lo straniero è ospitare Dio

Briciole dalla mensa - 16° Domenica T.O. (anno C) - 20 luglio 2025

 

LETTURE

Gn 18,1-10   Sal 14   Col 1,24-28   Lc 10,38-42

 

COMMENTO

 

Come può l’apostolo Paolo scrivere: «Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa»? Essere cristiani sarebbe allora gioire della sofferenza, sopportare ogni patimento? Non c’è già troppo dolore nel mondo? Nell’Anticristo Nietzsche scriveva che la concezione cristiana di Dio «è una delle più corrotte sulla faccia della terra» e che siccome il cristianesimo «ha preso le parti di tutto ciò che è debole, vile, malriuscito» questa religione «ha fatto un ideale dell’opposizione agli istinti di conservazione della vita forte». Cerchiamo allora di capire il valore della testimonianza paolina, che in realtà contraddice ampiamente le affermazioni del noto filosofo. 


La nascita alla vita in Cristo, mediante il battesimo, non ha tolto il dolore, le difficoltà, i fallimenti che appartengono alla nostra condizione umana: dolore e fatica, violenza e morte che vediamo ampiamente diffusi sulla faccia della terra anche ai nostri giorni. Ma in Cristo la sofferenza ha cambiato segno, non è più motivo di disperazione, diventa momento di incontro con il Padre, spazio nel quale Dio può agire. Nell’esperienza del limite, che ci rende conformi al Crocifisso, la potenza del Risorto è all’opera. Non può non essere fonte di gioia. Attenzione però: non tutta la sofferenza è fonte di gioia; penso ai bambini di Gaza e a tutti coloro che muoiono sotto le bombe o straziati dalla fame o dalla malattia. Di quali sofferenze sta parlando Paolo? Certamente non di queste. Parla delle difficoltà incontrate nell’annuncio del Vangelo, dei patimenti sofferti a causa delle ostilità dei Giudei, della diffidenza patita da parte di molti che pure si dichiaravano cristiani: queste sofferenze sono vissute a favore della comunità, diventano amore concreto, dono di sé che diventa fonte di vita per tutti. È una sofferenza che ha il carattere della gioia. È una sofferenza che edifica la Chiesa.


Paolo inoltre non vuole affermare che ciò che Cristo ha patito non sia sufficiente per salvarci, ma sa che ogni credente deve portare a termine un cammino, una missione nel mondo: rendere viva, nella propria esistenza, la partecipazione alla morte-resurrezione di Gesù, facendo della propria vita un dono per gli altri. Si tratta in particolare di portare a tutti la parola del Vangelo, secondo la missione affidata da Dio attraverso la Chiesa. 
La parola di Dio viene chiamata «mistero», nel senso che riguarda il disegno divino che l’uomo con le sue capacità non avrebbe avuto la possibilità di scoprire; una conoscenza che Dio soltanto ora, per mezzo del Vangelo, comunica ai suoi «santi», cioè ai cristiani, e che vuole diffondere su tutta la terra: Cristo in mezzo ai popoli: ogni uomo è chiamato cioè a vivere della presenza di Cristo, a trovare in lui il senso della propria esistenza, ad essere fin d’ora perfetto in Cristo. 

Nel brano tratto dal libro della Genesi vediamo degli stranieri arrivare, e ricevere ospitalità, come gli uomini del deserto, poveri e accoglienti, sono capaci di offrire. Un’ esperienza che anch’io ho potuto vivere tante volte, non solo in Calabria, tra contadini e pastori, ma anche in Palestina e in Iraq, negli anni terribili dell’invasione del sedicente Califfato islamico e della persecuzione dei cristiani, degli yazidi, e di altre minoranze musulmane. In quel tempo di grande sofferenza ho trovato una generosa e splendida accoglienza anche nei campi profughi, da chi non aveva più niente. Per l’orientale, per l’uomo del deserto, lo straniero che passa non è percepito  per prima cosa come una minaccia, ma come l’inatteso e il mistero, forse portatore di una buona notizia. Leggiamo infatti nella Lettera agli Ebrei: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2). I Padri della Chiesa hanno insistito su questo inatteso in cui Dio si manifesta: «Anche tu che accogli uno straniero, è Dio che tu ricevi» (Sant’Ambrogio, Su Abramo, libro I, cap. 5).  Nell’ospite è Dio che ti entra in casa!


È così che interpreta fin dal primo versetto il narratore della nostra pagina: «Il Signore apparve ad Abramo alle querce di Mamre». Alla vista dei tre viandanti Abramo entra in una sorprendente agitazione, forse un presentimento di fronte a questa presenza inspiegabile: chiede loro con insistenza di accettare la sua ospitalità, dà alcuni ordini a Sara e al servo, prepara personalmente il pasto festivo che sta per offrire ai tre misteriosi personaggi. Per descriverli si passa facilmente dal singolare al plurale: «il Signore apparve», «appena li vide corse loro incontro»: quale che sia l’origine di questo fenomeno grammaticale, se ne ricava un’impressione di mistero  nel quale la tradizione cristiana vedrà in seguito la figura del Dio Trinità. Rimane celebre a tale proposito la stupenda icona di Andrej Rublëv.


«Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». L’ospite, accolto con molta generosità da Abramo,  prende l’iniziativa, promettendo che Sara avrà un figlio. Ma Sara è sterile, e anche Abramo è avanti negli anni. Il riso di Sara, udibile ma discreto, traduce la sua incredulità di fronte ad una promessa umanamente impossibile da realizzarsi. Ma per il Signore anche ciò che esula dall’ordinario, ciò che è impossibile da capire, rimane nell’ordine del possibile. A noi invece rimane un compito – questo sì - umanamente possibile: praticare con larghezza d’animo l’ospitalità verso lo straniero, verso il pellegrino, verso chiunque bussa alla nostra porta. A tutto il resto, spesso sorprendente e inimmaginabile, ci pensa il Signore.
 
Il tema dell’ospitalità ritorna anche nel brano del vangelo di Luca: Gesù entra in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospita in casa sua. Dice il testo: «Marta aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta dai molti servizi».
Ne nasce un contrasto tra Maria, tutta intenta all’ascolto, e l’«affaccendarsi» di Marta. Tirato in ballo da quest’ultima, conosciamo la risposta di Gesù: non è il  generoso servizio di Marta che viene criticato dall’ospite di riguardo, ma il suo affanno e la sua continua agitazione. Gesù vuole solo dirci che la cosa più necessaria di tutte, ciò di cui abbiamo veramente bisogno prima di ogni altra cosa, è l’ascolto della sua parola, è  accogliere lui, che non viene principalmente per sedersi a tavola con i suoi, ma per incontrarci, per parlarci del Regno, per offrirci la sua amicizia. Questa è «la parte migliore, che non ci sarà tolta». 


Termino con una provocazione: perché si presentano tanti volontari alle sagre di paese e invece sono tanto pochi quelli che si rendono disponibili ad un ascolto fedele e perseverante della Parola nella loro comunità? 

Giorgio Scatto
monaco a Marango 


La storia di Marta e Maria cade a proposito d’estate: il tempo delle vacanze è propizio per immaginare viaggi, esplorare paesaggi interiori poco battuti, magari al fresco dei boschi o dei chiostri, talvolta con la Bibbia sotto braccio. Per ‘staccare’ insomma e ritrovarsi perché mica siamo solo strumenti di produzione e consumo!
Per un po’ almeno, tanto per  afferrare l’idea che c’è dell’altro, molto altro e che la ‘realtà’ è più grande di quella che ci costringe, e sognare che potremmo essere liberi, prima di rientrare. C’è una Maria in ciascuno di noi che si alimenta delle parole di Gesù e non ci sono più cose da fare, né più importanti di noi stessi.

Marta rimane sola a preparare per tutta quella gente cha ha invaso la sua casa e che deve pur mangiare… Vero anche questo, ma ‘dopo’.
Già, Marta è perfetta nel ruolo femminile, pratica e previdente. Maria è eccentrica, sicuramente più piccola, un tantino viziata e in fondo più libera. La libertà che il tempo delle vacanze ispira a tutti, confusamente, prima di motivare l'industria del turismo, mercificante.

S’è detto di tutto su Marta, che Gesù non intendeva far torto a lei che pur si preoccupava degli ospiti e Gesù stesso era ospite…   Ma è Maria che stavolta s’è presa la parte migliore.
Quando si gusta il pensiero di Gesù e la realtà che si apre si dimentica perfino di respirare. Contemplazione. Quando un ragazzo ed una ragazza si amano di tutto cuore passano le ore a parlarsi con gli occhi.  Miracolo. Già detto.
Marta quella volta non ne uscì bene. Probabilmente se ne tornò di là a preparare mentre la piccola ruffiana di sua sorella, si compiaceva di averla avuta vinta e del ‘suo’ Gesù.

Marta  imparò la lezione e al momento della morte di Lazzaro richiamò Gesù e gli chiese conto della sua assenza e del suo affetto per tutti loro. “Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto!”. E con questo giocò un ruolo nella risurrezione di lui.  “Ma ora so che qualunque cosa chiederai al Padre egli te la concederà!”.  (Gv, 11) Non sapeva esattamente cosa, parlava così perché glielo dettava il dolore e la speranza.
In questo caso Marta svolse un compito profetico nell’annuncio della risurrezione che accomunava tutti in un unico destino.

La Casetta è stata un luogo ed un tempo in cui si sperimentava la fondazione del monastero del Marango.
Qualcuno portò a viverci, nel disagio, due ochette che talvolta si tuffavano in un canale di scolo che passava di lì. Ne uscivano nere. I più animalisti di noi si davano da fare per lavarle e renderle al loro candore. Un giorno furono portate a tavola su un vassoio, cosce in su e contorno di patate arrosto. Di là, in piedi lungo la parete gli amici dal cuore tenero costernati, inorriditi e di qua gli altri dal palato fine e pelo sullo stomaco (don Giorgio, chi scrive…). Ah, già: le chiamavamo Marta e Maria, entrambe accomunate in un’unica sorte.   

Valerio Febei e Rita

 

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