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Non sacrificati, ma coinvolti

Briciole dalla mensa - 3° Domenica di Quaresima (anno B) - 7 marzo 2021

 

LETTURE

Es 20,1-17   Sal 18   1Cor 1,22-25   Gv 2,13-25

 

COMMENTO

 

In maniera decisa, quasi violenta, Gesù caccia dal tempio tutti i commerci, legati ai sacrifici che lì si facevano in onore di Dio. Ho collegato questo gesto e il suo significato al comando che leggiamo nel Decalogo (prima Lettura): «Non pronuncerai invano il nome del Signore». Non si tratta tanto del divieto dell'espressione verbale del Nome, quanto della raccomandazione di non chiamare in causa Dio, nelle questioni umane, «invano». Nell'ebraico arcaico, questa parola significa nominare Dio «in modo magico», così da pretendere che il Signore esaudisca pedissequamente i voleri umani. Nell'ebraico classico, «invano» significa «senza coinvolgimento», ovvero senza averne fatto esperienza e senza esserne effettivamente convinti. Infine, nell'ebraico tardo, «invano» significa «senza coerenza», perché chi parla con Dio deve anche essergli fedele compiendo il bene, come ci si aspetta che Lui lo compia per l'uomo. Questo comandamento chiede dunque al credente di impastarsi effettivamente con Dio e con la sua opera di salvezza.
In effetti, il sistema dei sacrifici offerti a Dio nel tempio rischiava di ispirare una logica di "delega": mi limito ad offrire animali e cose a Dio per procurarmi il suo favore. In questo modo si rischia di concepire un rapporto con Dio "a pagamento" e privo di coinvolgimento personale. Mentre sappiamo che già nell'Antico Testamento è ben chiara la critica contro i sacrifici, rispetto all'ascolto del Signore: «Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto, non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato» (Sal 40,7). E la tradizione rabbinica spiegava la differenza fra il gradimento dell'offerta di Abele, da parte di Dio, e non di quella di Caino, con una sfumatura del verbo «offrire» che li ha portati a interpretare che Abele abbia offerto, con i suoi doni, anche se stesso.

Dunque Gesù denuncia, con il suo gesto, non solo la corruzione intorno al culto con il lucrarvi della classe sacerdotale; ma anche critica un culto che non coinvolge effettivamente l'uomo con Dio. O meglio: che non fa fare esperienza del coinvolgimento di Dio con l'uomo.
Anche oggi rischiamo di chiuderci in "belle" (solo per noi) celebrazioni: una essenza senza sostanza. La Messa deve tradursi in vita, in storia, in pulsare di umanità, trasfigurata dal mistero celebrato. E deve essenzialmente declinarsi in articolati modi di stare nel mondo, per scoprire la presenza sempre consolante del Signore e per indirizzare tutti verso il Regno, cioè il progetto umanizzante del Padre.

 

Giovanni cita la Scrittura per rivelarci cosa spinge Gesù a compiere tale gesto: il suo zelo, il suo amore bruciante per il Padre. Non si tratta di integralismo religioso, perché, anzi, Gesù così decreta la fine di quel sistema religioso. Piuttosto, l'amore non sopporta mezze misure, e Gesù ha fretta di sostituire un ordine cultuale con un ordine personale e relazionale.
E alla domanda sul segno che dimostri la sua autorità per compiere tali gesti, Gesù risponde: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Si tratta di un'allusione alla sua Pasqua: «Egli parlava del tempio del suo corpo». Perciò Gesù qui rivela che la sua umanità, morta e risorta, è il tempio finale e definitivo, il luogo dell'incontro, dell'alleanza e della comunione tra Dio e l'uomo. Così, ogni umanità che vive nella sua esistenza la morte e la vita di Cristo è tempio di Dio, luogo di relazione.

 

La logica dei sacrifici consisteva nel distruggere materialmente quello che si offriva a Dio: nessuno poteva più usufruirne e così era dato a Dio. Nel caso di un'offerta umana, si trattava di una rinuncia per sé, pensata, in questo modo, come data a Dio. Ma Gesù non sostituisce semplicemente i sacrifici al tempio con il sacrificio della sua vita. È la risurrezione che ci salva, non la morte, che è soltanto essenziale solidarietà con la nostra condizione umana povera, dalla quale è la risurrezione che ci libera. È il corpo risorto di Cristo il vero e definitivo luogo dell'incontro con Dio.
Siamo così definitivamente usciti dal meccanismo dei sacrifici e delle rinunce, che ormai hanno senso solo come mezzi necessari per vivere la carità verso i bisognosi. La fede è fatta di opportunità positive, non di rinunce negative. Il Signore non vuole togliere nulla dalle nostre mani, anzi: ci ha messo in mano dei doni, Lui stesso si è fatto tutto dono a noi. Certamente ci vogliono mani aperte nel dare come lo sono nel ricevere, ma non come privazione, bensì come condivisione, nella logica dei cinque pani condivisi con i cinquemila grazie all'opera di trasfigurazione del nostro poco che il Signore sa operare.
Tutto a partire da quel meraviglioso «misericordia io voglio e non sacrifici» della Scrittura, proclamato da Gesù in mezzo ai peccatori.

 

Alberto Vianello

 

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