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Non conoscere per conoscere lo Spirito

Briciole dalla mensa - 2° Domenica T.O. (anno A) - 15 gennaio 2023

 

LETTURE

Is 49,3.5-6   Salmo 39   1Cor 1,1-3   Gv 1,29-34

 

COMMENTO

 

Giovanni Battista dà a Gesù la più grande testimonianza che un uomo possa dare al Figlio di Dio diventato «carne»: solo il Padre, lo Spirito e lo stesso Figlio potranno dare una testimonianza più piena, secondo il Vangelo di Giovanni. Ebbene, Giovanni compie questa sua funzione così importante a partire dalla duplice affermazione della sua non conoscenza. «Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell'acqua, perché Egli fosse manifestato a Israele». «Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell'acqua mi disse: "Colui sul quale vedrai discendere rimanere lo Spirito, è Lui che battezza nello Spirito Santo"».
Per questo, Gesù parla della necessità di diventare come bambini: come coloro che non possono confidare in un loro sapere, che non possono appoggiarsi sulla loro capacità acquisita di esperienza della vita. Talvolta, noi adulti siamo troppo "pieni" del nostro sapere, o anche sazi delle esperienze fallite del nostro sperimentare. Tante volte mettiamo davanti a tutto quel «io penso…» con il quale iniziamo il nostro parlare: quello è il nostro riferimento, al quale tutto ciò che è estraneo deve, in qualche modo, adattarsi.
Per conoscere Dio bisogna non conoscerlo: la sua conoscenza non deve essere data dalle proiezioni, soddisfatte o meno, che noi ci facciamo di Lui. Dio è sempre una novità, una scoperta da fare. Perché è amore, e l'amore varca i confini del conosciuto. L'altro, l'amato/a, non è mai solo ciò che conosco, soprattutto dei suoi limiti, seppur reali. Bisogna lasciar spazio allo stupore. E questo vale soprattutto per il Dio di Gesù Cristo, che ci sorprende sempre in apertura, disponibilità, volontà e opera di mescolarsi con la nostra umanità.

 

La testimonianza del Battista è un dito puntato a mostrare la presenza: «Ecco…». È il far vedere colui che si fa vedere come «l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Questa espressione ci rinvia al profeta Isaia, soprattutto al grande testo del cap. 53. Vi si parla di un Servo che è «come un agnello condotto al macello» (v. 7c): in aramaico, la stessa parola talyaʼ designa l'Agnello e il Servo. Ebbene, quel Servo «era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori, e noi lo giudicavamo castigato, percorso da Dio e umiliato» (vv. 3d-4). Subito, al suo primo apparire, si rivela il mistero di un Dio che è come un uomo di cui non si ha stima neppure come uomo. Addirittura è un Dio che, come abbiamo visto domenica scorsa, si fa peccato, per compiere «ogni giustizia».
Questa umiliazione del Servo non deve portare a disprezzarlo, dice Isaia: all'opposto, più si è abbassato e ha subito i mali, più è segno di come Lui non solo ha condiviso i nostri dolori, ma se li è caricati su di sé, togliendoli a noi. Ci toglie i peccati perché li porta Lui: umiliato per esaltarci. Perciò l'Agnello che toglie i peccati non è una categoria giuridico-religiosa di espiazione. È un Dio che sconfigge il male con la debolezza e l'infermità che ha assunto. È la piena assunzione della responsabilità dell'uomo, portandone Lui il peso, per amore nostro.
«Toglie il peccato del mondo»: cioè di tutti gli uomini. Ma vuol dire anche che toglie la mondanità che c'è in coloro che si dicevano credenti. Infatti, Giovanni aveva appena scritto nel prologo: «Veniva nel mondo la luce vera, era nel mondo, il mondo è stato fatto per mezzo di Lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto» (vv. 9-10). Sono gli uomini religiosi, quelli che avevano i "numeri" per riconoscerlo, che non hanno voluto farlo. La prima opera di «assunzione del peccato» ad opera dell'Agnello è dunque la rottura del sistema della Legge, che ha portato gli uomini a pensarsi giusti anche senza l'intervento di Dio, attraverso la loro osservanza religiosa.

 

Il secondo elemento della testimonianza del Battista è la proclamazione di aver visto lo Spirito scendere e rimanere su Gesù, "prova" del suo essere Figlio di Dio, come abbiamo visto nella scena del battesimo. È quello Spirito che Gesù donerà al momento della sua morte in croce (Gv 19,30): è la consegna della sua vita divina, nel dono della sua umanità, che si è spesa senza riserve, fino alla morte in croce, per noi. Lo Spirito ha "umanizzato" il Figlio di Dio in Maria (cfr. Lc 1,35) e il Figlio ha divinizzato l'uomo, donandogli lo Spirito: «È lui che battezza nello Spirito Santo».
Perciò anche oggi c'è una testimonianza come quella di Giovanni che bisogna dare. A partire dal battesimo in Spirito Santo, siamo chiamati a contemplare lo Spirito scendere e rimane su ogni persona. Giovanni ha contemplato lo Spirito su Gesù e quindi ha «visto e testimoniato» che quello è il Figlio di Dio. Perciò ora noi tutti, con il dono dello Spirito, siamo figli di Dio. Il Figlio, che era nell'intimità d'amore del Padre (Gv 1,18), ci rivela la bellezza dell'essere suoi figli. Ma ci chiama a riconoscerlo nelle persone, come Lui ha fatto con coloro che incontrava: i primi discepoli che lo seguono ignari, Nicodemo che va da Lui di notte per non compromettersi, la donna samaritana dei cinque mariti, la donna adultera destinata alla lapidazione, il cieco nato considerato peccatore, l'amico Lazzaro già da quattro giorni del sepolcro, Maria di Magdala che piange al suo sepolcro…

 

Alberto Vianello

 

 

 

Il brano ci riporta al clima del Natale. Repetita juvant, dicevano i Latini, la trasmissione del sapere avviene mediante la ripetizione della notizia: hai capito bene? E Giovanni, l’apostolo, è zelante nel rilanciare l’informazione: Gesù è colui che toglie il peccato del mondo. ‘Peccato’ che il mondo non sa, non avendo idea di chi rispetto a cosa c’è stata mancanza morale. Si conosce l’infrazione della legge, seppure. Ma anche in questo caso l’ammissione di colpa è così rara...

 

In cambio si indaga il senso di colpa provando ad anestetizzarlo con l’analisi, col fai da te, con i fiori di non so cosa, con i tranquillanti e, peggio, i maghi. Non pare affatto strano che nell’epoca della scienza e della tecnologia si faccia tanto ricorso alla chiromanzia e simili. Giro d’affari.  
Ci facciamo carico di quel noioso fastidio chiamato stress, che pare necessario alla modernità. ‘Contro il logorio della vita moderna facciamoci un Cynar’, i vecchi ricordano Ernesto Calindri. Questa condizione ci attraversa, come ci attraversa l’agnosticismo, l’indifferenza diffusa. Benedetto ci ha speso la vita, e il pontificato, nel tentativo di riprendere il dialogo tra credenza cristiana e cultura moderna poiché comprendeva che la crisi del cristianesimo, in tutte le sue forme, stava, sta, nel ‘tradimento dei chierici’, cioè degli intellettuali. Prendo a prestito il titolo di Julien Benda solo per dire la separazione tra filosofia e religione, in sostanza l’abbandono della riflessione sull’Essere. I chierici erano gli uomini colti, ‘studiati’, che in antico erano solo ecclesiastici. Gli ultimi pontefici, sia Giovanni Paolo II (Fides et ratio) che ultimamente Benedetto, richiamandosi a san Tommaso, hanno tentato in ogni modo di ricucire la frattura col pensiero moderno sul piano della stessa ragione, ben sapendo che una ragione scissa dalla ricerca dell’Essere si riduce a pensiero debole, si isterilisce, si frantuma. La fede è, secondo i pontefici, salvezza del senso anche per l’intelletto umano.

 

Abbiamo bisogno di rifondare sempre e di nuovo i percorsi intellettivi della credenza cristiana sia per noi stessi (una credenza fondata su convincimenti razionali porta in dono la pace) che per il mondo che con le sue proteste di ateismo ci inquieta e ci sfida. ‘Rendete ragione della speranza che vi abita’, dice Pietro (1Pt 3,15), ben sapendo che Egli è pur sempre al di là di ogni nostro concetto, perché se dall’intelletto abbiamo una dottrina, dall’incontro ‘personale’ abbiamo la relazione di amore.
L’assenso alla fede non è cosa di superficie, tanto per quietare le ansie. Allora si darebbe ragione a Leopardi quando in polemica con il cattolico Tommaseo affermava la nobiltà d’animo di chi sta davanti all’orrido vero senza fingersi scappatoie religiose. Bisogna essere onesti nell’un caso e nell’altro.

 

Benedetto tentando di ripristinare un dialogo con la cultura moderna ha puntato di lontano al rinnovamento della civiltà occidentale, che è figlia, come si sa, dell’incontro fecondo tra filosofia e fede, mondo greco e cristianesimo. Non si può parlare ora dei risultati poiché questi processi sono lunghi. Eppure è certo che un primo risultato può esserci già, nel raccogliere qui da noi quel richiamo all’unità interiore, alla coerenza tra il pensare e il credere (e l’agire). La stessa necessità profetica ritroviamo in Giovanni evangelista che fa dire all’omonimo, il Battista: “Io ho visto e testimoniato che questi è il Figlio di Dio”. Lo ripete nella sua prima Lettera con incessante premura (1,1-4): “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita … noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta”. Lo abbiamo già letto, ma ‘repetita juvant’. 

 

Valerio Febei e Rita

 

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