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Morti alla brama del possesso

Briciole dalla mensa - 18° Domenica T.O. (anno C) - 3 agosto 2025

 

LETTURE

Qo 1,2;2,21-23   Sal 89   Col 3,1-5.9-11   Lc 12,13-21

 

COMMENTO

 

Il cristiano è un uomo morto: «Voi siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio». Siamo morti e sepolti, assieme a Cristo. Sulla croce di Cristo è stato inchiodato il nostro peccato, la Legge che continuamente ci accusa, l’ingiustizia che ci divora. Sulla croce è stata inchiodata la morte stessa. 
Ma con Cristo, risorto dai morti, anche chi crede in lui sperimenta fin da ora la risurrezione: «Siete risorti con Cristo». Siamo creature nuove, anche se non siamo ancora arrivati al termine del cammino. Dobbiamo ancora diventare ciò che siamo, entrando sempre più nel dinamismo della risurrezione che già agisce nel presente. 
La via per sperimentare la vita nuova dataci con il battesimo è la ricerca incessante delle «cose di lassù», contrapposte alle «cose della terra». Intendiamoci: il cristiano non fugge la terra, il mondo, la storia, il conflitto; chi crede non evade dalla sua quotidiana e urgente responsabilità di edificare il Regno di Dio sulla terra, dando un volto umano all’esistenza. Troppe volte, soprattutto nei tempi passati, non è stato così. Molti cristiani preferivano attendere pazientemente il Paradiso piuttosto che sporcarsi le mani nelle faccende di questo mondo, sempre così difficile e complicato. Anche ora, talvolta, si narcotizza lo Spirito avvolti in profumate nuvole d’incenso e in splendide vesti liturgiche, nascondendo alla propria vista la presenza del povero e chiudendo gli orecchi al grido degli oppressi. Dice bene san Paolo: le cose «della terra» che dobbiamo fuggire, e addirittura far morire sono: «impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria». Queste cose sono come un abito vecchio e logoro, puzzolente, che dobbiamo deporre, proprio come avveniva anticamente nella liturgia battesimale. E come nel battesimo abbiamo ricevuto in dono una veste candita, così dobbiamo rivestirci dell’uomo nuovo, che continuamente si rinnova a immagine di Cristo. Ecco allora «le cose di lassù» che dobbiamo sempre cercare: «la giustizia, la misericordia e la fedeltà» (Mt 23,23). Di più ancora: dobbiamo rivestirci di Cristo (Gal 3,27). 
E c’è dell’altro: nell’uomo nuovo non ci sono più le divisioni provocate da diversità religiose, sociali, culturali, etniche, perché tutti siamo diventati «uno in Cristo Gesù».

Il mondo spesso dà importanza a cose che non sono realmente significative, mentre trascura ciò che è veramente importante. Si valorizza la ricchezza, il potere, il successo, il prestigio sociale, l’apparenza, mentre la logica evangelica incoraggia l’umiltà e il servizio agli altri. Il mondo cerca la felicità nelle cose materiali, mentre il Vangelo la trova nella relazione con Dio. 
Tutto quello che l’uomo considera importante è in realtà «vanità delle vanità, tutto è vanità»: lo affermava già tanti secoli or sono l’ignoto autore del Qohèlet, un sapiente e attualissimo libro della Bibbia, scritto tra il V e il III secolo avanti Cristo: un testo che si presterebbe molto bene per un dialogo con un mondo laico e agnostico com’è il nostro. Cosa significa che «tutto è vanità»? La parola ebraica hevel significa vuoto come un baccello, effimero, inconsistente. Quindi la frase esprime l’idea che tutte le cose terrene sono prive di valore duraturo e destinate a scomparire. Ma, mentre per alcuni l’affermazione viene usata per esprimere un senso di inutilità o di vuoto di fronte alle esperienze della vita, sottolineando la loro natura temporanea e fugace, altri la interpretano  come una riflessione sulla necessità di trovare un significato più profondo  nell’esistenza, legato a tutto ciò che ha una consistenza maggiore.  Sono anch’io di questo parere. Siamo sempre nella logica del «cercare le cose di lassù e non quelle della terra».

Nella provincia di Venezia dove io abito ci sono circa duemila avvocati e una trentina di notai: è a loro che normalmente molti si rivolgono per dirimere questioni legate all’eredità. Gesù non appartiene certamente a queste categorie e non si è mai posto come «giudice o mediatore» sopra di noi. Eppure la questione su quale valore abbiano e quale posto dobbiamo dare al possesso dei beni materiali interessa tutti, anche i cristiani. 


Nel brano del Vangelo di questa domenica Gesù si rifiuta di intervenire in una disputa tra fratelli riguardante l’eredità. Di fronte al penoso e purtroppo ricorrente spettacolo delle divisioni profonde che attraversano le famiglie quando c’è da dividere una eredità, Gesù non vuole attribuirsi compiti che non hanno nulla a che fare con la sua missione. L’obbedienza al Padre lo porta a non sentirsi legittimato ad intervenire sempre. Afferma invece che occorre tenersi «lontani  da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede». La cupidigia, come ci ricorda san Paolo nella seconda lettura, è pura «idolatria» (Col 3,8), sostituisce al Dio vivo e vero l’idolo del denaro. Papa Francesco parlava di una «economia che uccide», un’espressione forte che descrive bene  un sistema economico che, invece di promuovere il bene comune, genera disuguaglianze, povertà e sofferenza.  
Gesù, a questo punto, narra la parabola di un uomo che non ha il problema di come arricchirsi, ma di come conservare i suoi beni. Dopo aver messo al sicuro la sua ricchezza, guadagnata con il lavoro di una vita e con il sorprendente raccolto dell’ultima annata,   il ricco smetterà di lavorare per riposare, mangiare, bere e divertirsi. Io ho conosciuto un ricco proprietario terriero che un giorno mi confidò che lo scopo della sua vita era stato quello di aumentare il capitale ricevuto da suo padre. E, poveretto, nemmeno spendeva per mangiare, bere e divertirsi, perché i suoi pasti erano molto frugali. Almeno Qohèlet, giunge ad affermare, in mezzo a tanta “vanità”, che «non c’è di meglio  che mangiare e bere e godersi il frutto delle proprie fatiche» (2,24). Quest’uomo ricco morì sazio di giorni, lasciando i suoi beni ad altri. E, per dirla con il nostro Qohèlet, «anche questo è vanità e un grande male». 


Gesù invita piuttosto ad «arricchirsi presso Dio», ad usare cioè anche i beni materiali per operare scelte  che possono incidere sul cambiamento di questo mondo in favore dei più emarginati e sfortunati, a vivere una vita onesta e compassionevole, in modo sobrio, all’insegna della condivisione  con chi è nel bisogno e chiede aiuto. Gesù giunge anche a dire che, se vogliamo  seguirlo, occorre lasciare pure la barca e il padre, vendere quello che si possiede e darlo ai poveri  per avere «un tesoro nel cielo» (Mt 19,21).

Giorgio Scatto
monaco in Marango


Negli ultimi secoli dell’era precristiana, l’ellenismo si diffuse nel medio oriente cosicché la cultura greca entrando in contatto con l’ebraismo ne influenzò il pensiero. Ecco i libri sapienziali. In particolare nel Qoèlet si ritrova il pessimismo greco, il senso tragico dell’esistenza: gli uomini sono ‘i mortali’, in contrasto con gli dei i quali solo godono dell’immortalità e dei privilegi connessi: salute, benessere…  Evidente che l’Olimpo è l’esito di una proiezione: agli ‘immortali’ è attribuito quel che ai mortali manca.

Ma pure questa situazione fu all’origine del realismo greco, della filosofia, del pensiero logico e politico. Se le cose stanno così, se la vita è lo spazio di un giorno, come conviene trascorrerlo? Tutto è vanità, e allora?  Affannarsi? Accumulare per altri? Certo che no! Pare di rivedere Mazzarò che aveva accumulato campi e case quanti l’occhio poteva vederne a giro e, annusando l’odore della morte, correva per l’aia rincorrendo con un bastone i poveri animali e urlando: “Roba mia, vientene con me” e se gli capitava a tiro un ragazzo giù botte anche a lui che aveva il torto di avere la vita davanti. Verga.

Ne viene una saggezza razionale, naturale. Uno psicologo, psicoterapeuta, psico tutto di fama, sedicente ‘greco’, cioè ateo, sostiene che da questo sostare coraggioso davanti al destino mortale nasce un’etica severa, eroica, responsabile dato che scappatoie, uscite di sicurezza nella religione non ce ne sono.
Anche senza contrapporre ancora una volta realismo e fede, il nesso c’è. Il Qoèlet attorno al ritornello della vanità annoda piccoli valori come lo stare in compagnia, il piacere moderato della tavola, il vivere con serenità e in pace, essere grati dei doni della natura e il timor di Dio.
Stoicismo, epicureismo, ebraismo.

Qualcosa non va in questa corrispondenza tra saggezza razionale e senso di Dio? Anche il vangelo sta su questa linea: “Questa notte stessa ti sarà chiesta la vita e di chi saranno i tuoi beni?”.
Sapienza e fede concorrono all’equilibrio. Il sistema sarebbe ordinato, ma il mondo non è in pace. Non va come previsto. Ci sono delle variabili impreviste, provenienti dal di fuori del sistema. Matteo (13, 24 ss) spiega così (alla domanda dei servi: “Signore, non hai seminato del buon seme? Come mai c’è la zizzania?”): “Un nemico ha fatto questo”. È uno spirito sussistente che sibila il disordine alle porte della paura, della frustrazione e si insinua nella coscienza e la perverte senza di che nulla potrebbe. L’uomo è libero ma non è alla mercé del peccato, dello spirito del male, che è accovacciato alla sua porta, “ma tu dominalo” (Gen 4,7).  Occorre vigliare.

Nel vangelo Gesù chiama la causa del disordine ‘cupidigia’, che indentiamo come brama di possedere, di onnipotenza, di imporsi sul limite cioè di porsi fuori del sistema che ha per limite la morte. Decadono anche la saggezza e il timor di Dio.
Dicono che il cristianesimo ha fallito (ma non anche la sapienza razionale greca o illuministica?) dopo che per secoli ha mancato l’obiettivo di trasformar il mondo. Cosa spinge a scaricare sulla Chiesa una responsabilità soggettiva ‘attuale’? Scrive Giacomo (1, 25): “Chi guarda attentamente nella legge perfetta, cioè nella legge della libertà, e in essa persevera, non sarà un ascoltatore smemorato ma uno che la mette in pratica; egli sarà felice nel suo operare”.
Si dice che la Chiesa è manchevole, dice e non fa… Un giudizio di sufficienza la mette fuori tempo massimo, tanto vale per giustificarsi a fronte della fatica di avere un pensiero personale e di scegliere con responsabilità. Larga è la via del conformismo.

 

Dicono anche che la ricerca del profitto (versione moderna emendata della cupidigia) è una ‘legge’ dell’agire umano da cui nasce il progresso economico. Dicono. Nella misura in cui la ricerca del profitto si impone nella produzione e nel mercato è senza freni la rapina delle risorse della terra, la competizione, la guerra. Ogni gesto, ogni pensiero agito fra gli uomini è strumentale.
Don Oreste Benzi lanciò nel ‘96 il progetto della società del gratuito che sta su rapporti anche economici votati al bene comune, a relazioni fraterne che sono finalmente l’espressione del proprium dell’essere umano, principio della civiltà.  Famiglie che accolgono, case famiglia, cooperative sociali, ambulatori medici gratuiti… il volontariato che si fa società. Oltre la Rerum novarum. 

Valerio Febei e Rita

 

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