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La voce e la mano

Briciole dalla mensa - 4° Domenica di Pasqua (anno C) - 11 maggio 2025

 

LETTURE

At 13,14.43-52   Sal 99   Ap 7,9.14-17   Gv 10,27-30

 

COMMENTO

 

Scrivo questo commento mentre sta per iniziare il conclave, per l'elezione del nuovo Papa. Tutte e tre le Letture di questa domenica mi portano all'auspicio di fede che sia come Gesù un vero pastore della Chiesa nel nostro mondo.
Infatti, al centro del brano degli Atti degli apostoli (prima Lettura) c'è la parola di Dio: la gente si raccoglie per ascoltarla da Paolo e gli altri missionari, i Giudei - per gelosia - la rifiutano, allora diventa oggetto di fede dei pagani, che la glorificano, sentendola rivolta a loro perché è «luce delle genti» e annuncia la «salvezza sino all'estremità della terra». L'annuncio della «parola del Signore» è compito essenziale del pastore, per guidare la comunità nella fede, la quale è resa possibile dall'ascolto della Parola.
Nella seconda Lettura, il Risorto è Agnello e Pastore, perché guida i credenti alla vita piena grazie alla sua passione e morte. Infine, nel brano evangelico, Gesù, dopo aver guidato i suoi discepoli costituendoli in comunità, è anche il Risorto che dona loro la vita eterna: essi sono sue pecore, ascoltano la sua voce e lo seguono, e nessuno potrà strapparle dalla sua mano, perché è la stessa mano del Padre.

 

Dunque il pastore e la sua voce, che le pecore ascoltano e riconoscono, e si affidano alla sua guida. Ma il contesto nel quale Gesù pronuncia queste parole non è per nulla idilliaco, piuttosto profondamente negativo. Gesù è contestato, e proprio nel tempio, nel portico di Salomone. Contestato dai Giudei, da quelli che si ritenevano i detentori della fede vera. A loro non andava bene uno come Gesù, uno che promette lo Spirito ad una samaritana dai cinque mariti, uno che mangia con i peccatori, uno che rivendica i diritti dei poveri, uno che libera le persone dalle condanne religiose, come al cieco nato, «nato nei peccati», dicono loro. Uno così non poteva andare bene; la gente, piuttosto, doveva seguire loro: loro incarnavano la voce di Dio. Proprio per questo Gesù si propone come voce di Dio alternativa a quella dell'elite religiosa. Quindi le pecore fanno bene ad ascoltare Lui, e non le loro voci. «Le mie pecore ascoltano la mia voce» non la loro, «e mi seguono».
Se vogliamo, l'essere cristiani sta tutto qui: i cristiani sono quelli che ascoltano la voce di Gesù e lo seguono. Non sono coloro che seguono una dottrina, una spiritualità, una morale, una legge. Sono quelli che «ascoltano la mia voce».

 

E «voce» è un termine che dice relazione, intimità, più ancora delle cose che vengono dette. Tutti proviamo l'emozione di essere riconosciuti grazie alla voce o di riconoscere a partire dalla voce. Perciò la voce esprime il desiderio dell'altro, del piacere di ascoltare la sua voce, la voce di Dio, l'attesa della voce di Dio. Come dice il Cantico dei cantici: «Mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso incantevole» (2,14). Seduzione di una voce: ascoltarla. Dagli ebrei abbiamo ereditato l'esperienza che il popolo del Signore è il popolo dell'ascolto, non delle visioni: «Dio, nessuno l'ha mai visto» (Gv 1,18). Perché la prima maniera per dire a qualcuno - che sia Dio o un fratello - che «tu ci sei per me» è mettersi ad ascoltarlo. Amare è ascoltare. Ascoltare la voce, la voce di Dio, la voce dell'altro.

 

C'è un altro elemento umano molto espressivo, al cuore del Vangelo: la mano. Gesù dice che nessuno mai potrà strappare le pecore della sua mano, tanto è forte il suo amore e la sua dedizione per loro. La mano, nel Vangelo di Giovanni, appare come una realtà che rappresenta l'amore, per gli altri, o ricevuto da altri: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (3,35). Nell'ultima cena, Gesù compie il gesto dell'amore più radicale, dona la sua vita per i discepoli: lava i loro piedi. «Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle sue mani» (13,3), prende, in quelle mani, i piedi sporchi dei discepoli per lavarli.
«Nessuno potrà strapparle dalla mano del Padre». Il Padre apre la sua mano per donare tutto al Figlio, ma, insieme, stringe la sua mano per custodire tutti, perché i perduti non si perdano più e si ritrovino in quella mano. La mano aperta del Padre diventa la mano aperta del Figlio, forata dai chiodi della crocifissione. Dunque, in quella povera mano del Figlio aperta nella piaga c'è anche la mano aperta del Padre, perché Tommaso, che l'ha voluta vedere, vi riconosce l'amore del Figlio per lui e, insieme, l'amore del Padre: «Mio Signore e mio Dio».
Perciò il buon pastore è colui che dona la vita per le sue pecore, e proprio in questo dono totale di sé, di perdita di se stesso, Egli dona l'amore e custodisce le sue pecore nell'amore.

 

Alberto Vianello

 

 

Un legame indissolubile con i suoi discepoli, come è il legame dell’amore coniugale che lo stesso Gesù raccomanda. Possibile, essendo l’amore cosa di cui si ha cura, oggetto di scelta. Si torna lì, al dono di sé per amore e da lì ripartono le nostre prassi. A questo livello non c’è cosa che possa separare l’amante dall’amato. Questo è quel che ne viene: il buon pastore ispira il buon fidanzato, il buon marito, il buon padre, il buon maestro… Traducendo: tutto sta sul valore dell’appartenenza. 
Il cristianesimo è una relazione d’affetto, oltre e dopo essere una liturgia. Oppure è la ‘liturgia’ delle relazioni dinamiche d’amicizia e di amore. Dice san Paolo ai Tessalonicesi: “Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, 
perché ci siete diventati cari”.
Questo fa la differenza fra la religione e il cristianesimo.  Forse occorre pensarci di più.

 

Per dirla con un termine usato per indicare lo strano comportamento delle particelle subatomiche, tutto è in entanglement, in connessione e nessuna cosa è un’isola. La lezione di Papa Francesco. Dio è entangled con noi talché “anche se mio padre e mia madre mi avessero abbandonato, l'Eterno mi accoglierebbe”, salmo 27. Ciò vuol dire che chiunque, a suo livello, può avere una relazione di cura verso i più piccoli, verso gli esseri viventi, verso la natura.
Ma c’è una cultura in Occidente che genera l’idolo dell’individualismo e il mito della sazietà, ognuno basta a sé stesso. I Giudei erano paghi della tradizione mosaica in cui non c’era spazio per annunciare cose nuove ed inaudite. Paolo si rivolse alle Genti. La Chiesa fiorisce altrove nel mondo.
Anche gli educatori sono dei pastori. Ma sempre meno il ruolo dell’educatore porta un’intenzione formativa.

 

Ho visto scivolare la funzione del docente verso compiti di natura didattica concernenti l’insegnamento della disciplina. Da ciò la persona, le persone restano fuori. C’è molta formazione sulla didattica di questa o quella materia e mai sulla pedagogia, come se l’abilità del comunicare sostituisca il pensiero, chi cosa e perché comunica. Poiché l’esigenza è corrispondere alle richieste del mercato del lavoro.
La vita interiore? La condizione morale e psicologica del minore? Bah, non compete all’insegnamento. Compete semmai alla sensibilità del singolo insegnante che resta umano, ‘conosce’ lo stato d’animo del suo studente, ne ha cura discretamente. E verso di lui ha un atteggiamento positivo, promovente, incoraggiante. Se pensa che il suo ragazzo ce la farà, egli ce la farà.  Ci si innamora dei propri alunni o insegnanti. Ci sono casi in cui ancora dopo decenni ex alunni ed ex insegnanti si scrivono.

 

Il buon pastore dà la vita per le sue pecore. Che per un educatore vuol dire occuparsi, secondo il ruolo, della vita buona di chi è loro affidato. Un atteggiamento positivo, carico di stima ha un effetto favorevole sulla persona. Tradurre lo stile del Buon pastore nelle relazioni significa prendersi cura dell'altro.
Di educare non si finisce mai. Il rapporto con i nipotini non sono gli stessi che con i figli: cambiano le forme in cui si esercita la responsabilità ma i nonni sono educatori formidabili.
Gesù ha una responsabilità diretta verso le sue pecore, coloro che riconoscono la sua voce possono dirsi discepoli. E a loro volta pastori.

 

Valerio Febei e Rita

 

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