Briciole dalla mensa - 23° Domenica T.O. (anno C) - 7 settembre 2025
LETTURE
Sap 9,13-18 Sal 89 Fm 1,9-10.12-17 Lc 14,25-33
COMMENTO
Prima di commentare, se pur brevemente, la prima Lettura di questa domenica, tratta dal libro della Sapienza, vorrei darvi alcune informazioni sul testo. È l’ultimo scritto dell’A.T. redatto tra il 30 a.C. e il 14 d.C. in quello spazio di tempo che viene definito come “intertestamento”, un periodo storico compreso tra la conclusione della scrittura dell’Antico Testamento e l’inizio della predicazione di Gesù. In questo periodo l’ebraismo continuò a svilupparsi, producendo opere letterarie e teologiche che influenzarono il mondo ebraico e, successivamente, il cristianesimo nascente. L’autore è ignoto: occorre pensare ad un anonimo giudeo di lingua greca, residente ad Alessandria d’Egitto alla fine del I sec. a.C. destinatari del libro della Sapienza sono i giudei di Alessandria e, in particolare, i giovani che il nostro autore vuole rafforzare nella fede e preparare alle future responsabilità che li attendono nella comunità giudaica, e allo stesso tempo a rimanere fedeli alla tradizione dei Padri, senza cedere alle tentazioni provenienti dalla cultura ellenistica. Il libro entra in tal modo, con decisione, in dialogo con il proprio tempo, consapevole di un mutamento culturale che richiede, necessariamente, uno sforzo di adattamento della fede.
Nel Concilio di Trento, nel 1545, dopo secoli di controversie circa la sua canonicità, il libro della Sapienza, mai riconosciuto come tale dall’ebraismo, perché redatto in lingua greca, verrà dichiarato, come altri testi deuterocanonici, appartenente al corpo delle Scritture ispirate.
Veniamo al nostro brano: «Quale uomo può conoscere il volere di Dio? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni» (9,13-15). Nel testo è evidente il riferimento al pensiero neoplatonico, per il quale il corpo è solo una «tenda di argilla» che imprigiona «la mente piena di preoccupazioni». Ritorna il tema della fragilità umana, che non può giungere a conoscere la volontà di Dio, espressa nella Legge, senza il dono della sapienza e dello Spirito che viene dall’alto (v. 17). Secondo la dottrina platonica il corpo è addirittura «tomba» dell’anima e l’anima deve liberarsi da questa prigione per non doversi reincarnare in un altro corpo; sarà proprio il dono dello Spirito, che infonde la sapienza del cuore, a liberare l’uomo da questo pericoloso dualismo.
Il dono della sapienza così invocato, produce nell’uomo tre frutti di bene: raddrizza i sentieri di chi è sulla terra, allontanando l’uomo dal peccato; istruisce in ciò che è gradito a Dio; conduce alla salvezza (v. 18). Occorre anche sottolineare che il punto di partenza della grande preghiera per ottenere il dono della sapienza, che occupa tutto il capitolo 9, non nasce dalla consapevolezza della fragilità dell’uomo e della sua oggettiva debolezza, ma dalla contemplazione della grande opera salvifica del «Dio dei padri e Signore di misericordia» (9,1).
Nel brano del vangelo di Luca leggiamo che «una folla numerosa andava con Gesù»: l’attenzione è posta sulle folle che facevano il cammino andando dietro al profeta che veniva dalla Galilea, probabilmente senza essersi ancora interrogate a fondo sul significato della sequela.
Gesù ad un certo punto si ferma e, voltandosi verso coloro che lo seguivano, pronuncia parole forti: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle, e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Seguire Gesù è scegliere, distinguere, fino a separare. Luca mantiene il verbo «odiare» (e non odia... ), mentre Matteo ne attenua la durezza interpretando, in modo giusto, con «amare più di... » (Mt 10,37). E così ha fatto la nuova traduzione della CEI. Evidentemente l’invito non è di odiare tutti quelli che amiamo, al fine di poter amare un altro, che si presenta come leader indiscusso; no, di odio ce n’è già troppo nel mondo, anche l’odio suscitato da una errata e malintesa fedeltà alla religione, come è avvenuto nel passato anche tra cristiani e, in tempi più recenti, nel mondo islamico, e come interpreta anche oggi in Israele il sionismo più violento e sanguinario.
Una frase fra tante: «Cancellerai la memoria di Amalèk sotto al cielo: non te ne dimenticare!» (Dt 25, 17-19). È una citazione biblica ripresa più volte, con ostentata convinzione, dal primo ministro israeliano. Gli Amaleciti erano la prima tribù che aveva mosso guerra agli israeliti dopo la liberazione dall’Egitto. Oggi, nei discorsi ufficiali del governo di Israele, il nemico da abbattere è l’intero popolo palestinese. Così si esprimeva Riccardo di Segni, il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma in una lettera inviata a Repubblica il 27 ottobre 2023, venti giorni dopo l’orrenda strage perpetrata da Hamas, in seguito alla quale Israele ha dichiarato una guerra totale a Gaza : «Le guerre sono sempre un’offesa alla dignità umana, comportano morte e distruzione, e certamente vanno evitate, ma quando è in gioco la propria esistenza davanti ad un nemico irriducibile l’alternativa pacifista è discutibile anche moralmente... Qualche volta qualcuno deve essere sconfitto, solo lui e per sempre». E così, fino ad oggi, si contano più di 55.000 uccisi, di cui 18.000 bambini, oltre ai 15.000 dispersi, 125.000 feriti, 2 milioni di sfollati, l’80% di Gaza rasa al suolo.
Scusate se vi sembra che io vada fuori tema, ma il cuore è troppo gonfio, non posso più trattenere il dolore e rimanere in silenzio. Sì, il Vangelo non ci invita all’odio, anche travestito da buoni sentimenti religiosi, tanto meno ispirato da ragioni politiche o di egemonia territoriale. Il Vangelo ci esorta ad avere un amore più grande di quello che umanamente sappiamo esprimere nei confronti di un padre, di una madre, di un fratello, di una sorella, di una qualsiasi persona che amiamo. È un amore attinto e ricevuto sotto la croce di Gesù il quale «avendo amato i suoi, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Essere discepoli significa imparare una sapienza divina, non una dottrina umana. «Portare la croce» non è sinonimo di passiva rassegnazione, ma implica una profonda comunione in vita e in morte con Cristo. È diventare capaci di una radicale fedeltà alla storia degli uomini, creati uguali da Dio e chiamati «miei fratelli» dal Signore Gesù; è portare sul proprio corpo la sofferenza, il dolore, la solitudine di molti; è amare tutti, anche i nemici, perché solo l’amore può intenerire anche il cuore più indurito.
Nel testo evangelico sono proposti poi due paragoni, peraltro non particolarmente efficaci. Il primo, edilizio, riguarda la valutazione dei mezzi necessari per la costruzione di una torre. Il secondo è improntato ad un «realismo» politico basato sulla forza: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima ad esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila?». Ma allora, è la smentita di quanto affermato poc’anzi: anche Gesù vuole, ammette, considera anche l’opportunità della guerra!? Certamente no, Lui che ha detto a Pietro: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno» (Mt 26,52). Il paragone, forse tra i meno riusciti, vuol dire semplicemente questo: essere discepoli non è vivere un momentaneo entusiasmo per un nobile progetto di vita, ma essere pronti a mettere tutto in gioco, anche la propria vita e i propri beni, nella esigente sequela del Signore Gesù. Un cammino di tutta una vita.
Forse è per questo che c’è in giro molto volontariato, anche generoso, ma non riusciamo a vedere chi sia capace di prendere decisioni forti e radicali, che impegnano un’intera esistenza.
Vi invito, infine, a rileggere la breve lettera di Paolo a Filemone. Uno schiavo, Onesimo, era fuggito dal suo padrone, un uomo ricco diventato cristiano, e si era rifugiato presso Paolo. Paolo lo rimanda indietro «non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo». Parole di una grande attualità, capaci di risvegliare le nostre coscienze addormentate e indurite, che amano alzare muri e fabbricare giudizi. Non schiavi, ma fratelli, tutti!
Giorgio Scatto
monaco in Marango
Dopo tutto la conversione non avviene tutta d’un botto, a meno che non si cada da cavallo ed una voce dal cielo faccia il resto. Abbiamo tempo, finché l’abbiamo, benché di domenica in domenica la Parola ci dica di non illuderci che il vino nuovo possa stare in otri vecchi.
La conversione è un cambio radicale di mentalità. Succede ai mortali, come ci definisce la Sapienza, alla moda dei Greci, di non azzeccarne una con i nostri mezzi. Mettiamo le cose insieme, il vecchio e il nuovo, un po’ di cristianesimo e un po’ di paganesimo, un po’ di divino ed un po’ tanto di umano… Un po’ schiavo e un po’ fratello. Sappi però, dice Paolo, che Onesimo è solo fratello.
Anzi, ci premuriamo a volte di mettere d’accordo la fede con la ragione umana, come se si possa ridurre lo scandalo di un amore crocifisso. E della risurrezione. Siamo moderni e ciò vale come un richiamo ad essere politicamente corretti.
Molta gente lo seguiva, interessata a quei suoi discorsi sulla fraternità e ancor più per i prodigi che faceva. Ciascuno di quelli che lo accompagnavano per strada era quel che era, con il suo carattere, i suoi metodi nel trattare in famiglia, negli affari, con i propri retaggi mentali, i valori se ne aveva… E tale sarebbe rientrato a casa dopo un giorno o due e avrebbe ripensato a quel rabbi con nostalgia. Che bello sarebbe!
Quella nuova predicazione non gli avrebbe cambiato la vita. E forse non cambia la nostra se il sistema è ‘un po’ e un po’. La nostra vita, intendo la mia, sedicente cristiano, che va a messa la domenica, poi torna a riconoscersi di fatto nei rapporti assodati e a brontolare con la moglie, i figli, i colleghi, il passato con i suoi fantasmi e le ansie per il futuro…. Cose o persone che si amano, direbbe. Si amano quelle persone o si ama il modo di vivere, la consuetudine dei riscontri, la sicurezza affettiva?
Capiamo cos’è l’amore, certo, la gratuità generosa. Spesso ci ragioniamo su ed è occasione di verifiche e di richiami. Per lo più ci si accontenta. Un po’ ed un po’. Bando alle ciance su sentimenti ed emozioni, su chi dà e chi riceve. Ma si può amare davvero il prossimo ‘motu proprio’ a prescindere dall’amore di Cristo? Gesù dice di no. Se uno ama suo padre, sua madre, suo figlio, sua moglie più di me non è degno di me.
Senza contare che molti rapporti interni alla famiglia, che passano sotto il nome generico di ‘amori’ non sono tali, ché l’amore implica la gratuita e la libertà, non attaccamento e addirittura dipendenza.
È un aut aut. Proviamo a farcene una ragione, anche perché capiamo che non può voler dire che tutti i nostri rapporti più stretti da allora in avanti vanno gettati alle ortiche. Ma anche così, dando il primato a Cristo, l’amore per il prossimo non è meno esigente. Capiamo che in effetti c’è un solo modo di amare gli altri, che qui si invera: quello di Cristo, perché l’amore è uno. Per questo egli può dire: amatevi come io vi ho amati. Come? Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici, compresi padre, madre, figlio, fratello, moglie…
Si può dire molto di più e meglio. Si può amare se non si è liberi dentro, dai ricordi, dal sentimento del peccato, dal giudizio operante nei nostri rapporti attuali? Era necessario che Cristo ci amasse per primo e che ne fossimo rigenerati all’amore. La conversione è avere il coraggio di essere veri: accoglieremmo senza dubitarne la verità del suo gesto di amore per noi.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
Strada Durisi, 12 - 30021 Marango di Caorle - VE
0421.88142 pfr.marango@tiscalinet.it