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La santità della felicità

Briciole dalla mensa - Festa di tutti i Santi - 1 novembre 2020

 

LETTURE

Ap 7,2-4.9-14; Sal 123; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

 

COMMENTO

 

Preferisco parlare di «beatitudini» come si esprime il Vangelo di questa domenica, piuttosto che di «santità»: una "categoria" considerata nella Chiesa in modo ancora troppo moralistico, spiritualistico e poco battesimale.
«Beati»: significa che la vita cristiana è una chiamata alla felicità, che trova in Dio la sua vera realizzazione. Ma è una linea che parte dal reale e concreto della nostra esistenza umana. Così Gesù proclama la beatitudine innanzitutto per i «poveri». La povertà non è una felicità, all'opposto; e non lo è nemmeno se uno la pensa come un "prezzo" da pagare per avere in premio nell'aldilà (come spesso si interpreta). I poveri sono coloro che, non potendo confidare in se stessi e nemmeno sull'aiuto degli altri, sono aperti, disponibili e fiduciosi solo nell'intervento di Dio: non possono che sperare in Lui, che certamente interverrà in loro aiuto, e questa è la loro beatitudine. Ma i poveri non sono dei fatalisti e dei "magisti" (coloro che aspettano un intervento inatteso e straordinario di Dio, come una magia, appunto): sono coloro che sanno vedere nel più piccolo fatto positivo un segno dell'attenzione e della cura di Dio. Per questo è importante anche il minimo gesto di carità che possiamo compiere nei loro confronti: si diventa così strumenti di quei segni che il Signore vuole rivolgere ai suoi poveri.

 

In questi giorni mi trovo spesso pensare a «coloro che sono nel pianto»: ci sono tanti drammi umani su vasta scala nel mondo, ma anche tante situazioni quotidiane e domestiche. E, nonostante la nostra pretesa civiltà, continuiamo a vivere la "legge della giungla": il più forte opprime i più deboli. Mentre, coloro che sono già strutturalmente fragili si ritrovano sempre più esclusi da una società che punta tutto sull'efficientismo. Ebbene, la beatitudine dice che chi si trova così a piangere «sarà consolato». C'è una diretta corrispondenza tra la situazione di povertà e l'azione di Dio che porta beatitudine. Perché, per Dio, ogni lacrima dell'uomo è importante: «Nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro?» (Sal 56,9). Dio non conserva i peccati per farceli pagare, ma conserva le nostre lacrime per consolarle: «Come una madre consola un figlio». Allora l'eternità di Dio e la santità dell'uomo sono i gesti della tenerezza più grande, più sensibile e più coinvolta: questo attende chi piange.

 

La mitezza è la scelta cosciente e libera di rinunciare ad usare la forza. L'uomo più mite della storia, dice l’AT, è stato Mosé; sebbene per tutta la sua vita abbia lottato e combattuto, anche contro Dio. Ma quando Aronne e Maria mettono in discussione la sua leadership, Mosé non reagisce né dice una parola. Allora la mitezza non è la remissione della lotta, ma la rinuncia a difendere solo le proprie posizioni, anche se legittime. Anche Gesù ha lottato sempre per liberare l'uomo, ma, pur proclamando la giustizia, non ha mai messo in campo delle forze per difendersi. Perché ha sempre creduto nella forza della rinuncia ad usarla: ha porto l'altra guancia per amare anche i nemici.

 

Ci sono due beatitudini per coloro che si spendono per la «giustizia»: essa è il piano e l'opera di Dio a favore dell'uomo. Si chiama «giustizia» perché Dio risulta sempre fedele (e quindi giusto) alla sua parola, che da Abramo in avanti è stata sempre parola di alleanza e di benevolenza. Penso che da Dio e dalla sua opera possiamo imparare, innanzitutto, il riconoscimento dell'altro e dei suoi diritti, liberandoci così dall'egoismo e dal centramento su se stessi. La prospettiva e il dono di Dio per chi si impegna in questo sono, infatti, «il regno dei cieli»: dove speriamo non solo di esserci, ma di essere insieme agli altri. Io sogno così il paradiso, leggendo le Scritture: una condizione umana nella quale tutti vivremo pienamente da fratelli, senza antagonismi e rifiuti. Questo è il sostanziale godimento di cui abbiamo bisogno, la soddisfazione del nostro desiderio di felicità.

 

La beatitudine della misericordia è l'attivo credere ostinatamente nell'umanità di chi l'ha smarrita con i suoi errori e l'ha rovinata anche agli altri. Un'umanità che si vuole ricostituire attraverso il perdono, che è un andare oltre, è il dare una nuova possibilità, e non ridurre la persona alla sua negatività. La misericordia non nega la giustizia. Non è assolutamente accettabile chi, in nome della misericordia, consiglia, per esempio, a chi patisce violenza di continuare a subire. Invece, lo scopo della misericordia è proprio quello di disarmare la violenza dell'altro.

 

La «purezza di cuore» è la coerenza reale e totale del proprio comportamento con le scelte profonde della propria vita (che vengono proprio dal «cuore»). Non c'è chiesto di essere perfetti, ma coerenti. Ma anche di fronte a eventuali "sbandamenti" il recupero deve avvenire riattivando tali scelte di fondo. Non si deve giudicare né se stessi né gli altri sulla base di un comportamento sbagliato: ma si devono recuperare e considerare le situazioni personali sulla base di quelli che sono i progetti veri e buoni, per cui si vive.

 

La «pace» è legata al verbo «fare». Significa che essa necessita di un lungo, paziente e faticoso impegno. Per la pace, più ancora che per gli altri beni, rimane ancora oggi il tempo della semina, non ancora della mietitura. Ci vuole dedizione, applicazione e tanta generosità e larghezza di gesto, come quella del seminatore. E poi, attesa, perché il seme della pace cresce da sé, ovvero lo fa crescere il Signore, come un mistero.

 

Alberto Vianello

 

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