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La povertà delle beatitudini

Briciole dalla mensa - 4° Domenica T.O. (anno A) - 24 gennaio 2023

 

LETTURE

Sof 2,3; 3,12-13   Sal 145   1Cor 1,26-31   Mt 5,1-12

 

COMMENTO

All'inizio dell'attività pubblica di Gesù, Matteo pone un lungo discorso (ben tre capitoli del suo Vangelo), che ci accompagnerà passo passo nelle prossime domeniche, prima di venire interrotto dall'irrompere della Quaresima. È un discorso che inizia con la rivelazione della gioia per la comunione con il Signore (le beatitudini: Mt 5,1-12), ha al cuore l'imitazione dell'amore pieno di Dio (quello per i nemici: Mt 5,43-48) e termina con l'invito a fare della propria vita una casa accogliente, fondata sulla saldezza della parola di Dio (Mt 7,24-27): davvero ci offre una grande ricchezza spirituale e umana.
Vedendo la gente, Gesù si rivolge ai suoi discepoli: dà a loro il Vangelo, perché lo portino poi alla gente. Come farà con i cinque pani, che, nel medesimo passaggio di mani, sfameranno migliaia di persone: il miracolo è la condivisione umana del Figlio di Dio, e i discepoli sono i primi ad incantarsi davanti a tale prodigio, e a trovarne così la spinta a farne parte con tutti.

 

«Beati…» è un invito a riconoscere una gioia intima e profonda che viene dalla comunione con il Signore. Una gioia sperimentata in situazioni concrete, nelle quali anche Gesù si è trovato, e che Lui ha vissuto come occasioni di amore e di dono di sé: «Beati i poveri, quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete della giustizia…». Il cammino cristiano è un umanissimo cammino di scoperta e di esperienza di felicità. La vera felicità, per l'uomo, è sapere di avere realmente qualcosa in comune con Gesù, perché Lui ha in comune con noi la stessa umanità. E Gesù è il vero beato perché mite, misericordioso, povero in spirito.
Tutte e tre le Letture ci parlano della predilezione di Dio per i poveri. Perché i poveri sono coloro che perseguono veramente la giustizia, non commettendo iniquità e non dicono menzogna, perché non hanno da garantirsi il potere e la ricchezza (prima Lettura). La comunità di Corinto è composta da persone irrilevanti dal punto di vista sociale, religioso ed economico: perché Dio sceglie chi è debole, ignobile e disprezzato per confondere le grandezze umane (seconda Lettura). Lo sguardo di Gesù sulle folle rivela, attraverso le sue parole, qual è, per Lui, il vero discepolo: non è determinato da un'appartenenza puramente esteriore, ma da un vivere interiore ed intimo fatto di povertà di spirito, mitezza, misericordia, pacificazione (Vangelo).

 

«Beati i poveri in spirito»: sono coloro che vivono l'atteggiamento di disponibilità e apertura verso gli altri. Coloro che non mettono davanti le loro capacità e le loro opere, ma sono così poveri da desiderare l'altro, la sua felicità, come se fosse la propria. A costoro Gesù garantisce il «regno dei cieli», cuore del suo annunzio (Vangelo di domenica scorsa). Un Regno che si è fatto così vicino nella sua umanità, da essere alla portata dei poveri, appunto, di coloro che si sono curati degli altri, diventando loro stessi poveri: pensiamo, in questi giorni, alla bellissima figura di Biagio Conte. Il Regno non è un luogo, ma una relazione: è essere con Dio, essere suoi figli, vivendo poi la comunione dei santi, cioè dei fratelli di Gesù.
«Beati quelli che sono nel pianto», perché l'unica cosa che Dio conserva di ciascuno di noi sono proprio le nostre lacrime, come dice il Sal 56,9. E «le lacrime della vedova scendono sulle sue guance [di Dio]»: Sir 35,18.
I «miti» sono coloro che vivono l'arte più bella del mondo: non far prevalere la propria forza; fisica, intellettuale, morale che sia. Sono coloro che si sottomettono instancabilmente alla fatica del dialogo. Mosé è dichiarato «il più umile sulla faccia della terra» perché non reagisce quando Maria e Aronne, sui fratelli, si rivolgono a Dio rivendicando di avere un carisma pari e anche superiore a lui (cfr. Nm 12,1-8).

 

La «giustizia» non basta desiderarla: bisogna considerarla come essenziale da averne «fame e sete». È la fedeltà al patto, all'alleanza, al legame. La giustizia la vediamo in due sposi che rimangono fedeli e uniti anche quando il loro legame si complica e si fa arduo, impegnandosi per un futuro diverso, più che per il passato impegno.
I «misericordiosi» sono coloro che cercano e rispettano l'umanità dell'altro, anche quando questa sembra del tutto smarrita. La misericordia è amore incondizionato, che ama ciò che non è ragionevole amare. Essa crede la dignità umana anche del criminale, del mafioso, del pedofilo, dell'uomo senza dignità perché l’ha negata agli altri. La misericordia rispetta l'uomo nella sua nullità, quando non è più rispettabile per le condizioni di depravazione in cui si è posto. È il rifiuto di ridurre l'uomo alle sue colpe, pur così gravi.
I «puri di cuore» sono coloro che appartengono a Dio senza divisioni. È chi ha uno stile di relazione limpido, nel quale non c'è inganno, né nei confronti di Dio né nei confronti del prossimo. Significa essere come Dio, che «guarda con il cuore» (1Sam 16,7), e sceglie ciò che non è umanamente considerato, solo per amore.

 

«Beati gli operatori di pace»: il Vangelo conia un'unica parola: facitori-di-pace. È l'unica opera richiesta, perché l'unica che conta. La pace è fare pace: operarla laddove non c'è. Implica lavoro, impegno, fatica. La pace non nasce dalla semplice spontaneità, dall'affinità degli animi, dalla corrispondenza degli spiriti. È un campo umano arido ed incolto, da smuovere, lavorare, fecondare e seminare. È impegnare il futuro, rendendo possibile oggi la fecondità di domani.

 

Alberto Vianello

 

 

 

Il verbo utilizzato nelle profezie è il futuro. La promessa ci sottrae al dominio del presente e contiene già una trepida felicità. ‘Beati perché sarete’ vuol dire che già oggi godiamo un anticipo del bene promesso. La fiducia poi fa ‘accadere’ ciò che è desiderato. Così si onora chi promette. Lo stesso vale per la speranza: purifica l’intenzione e fortifica la fede. Ma già nel promettere Gesù dà.

Immersi come siamo nel tempo non ci è per niente facile capire il futuro della beatitudine. Facciamo esperienza di desolazione, di dolore e pare allora che non ci sia altro. Dov’è la beatitudine nell’assenza? Ma l’assenza vissuta con desiderio puro e con fiducia in chi promette lascia ‘vedere’ la consolazione prima del tempo. Del resto se una tal cosa non è sperata mai la si incontra. Se passa vicino non la si nota.

 

Si confessa: Dio è eterno. Può significare che il futuro è già in atto in Lui. In Lui tutto è presente, il già e il non ancora, quelli che sono passati e che verranno. Presso di Lui ci può stare ogni consolazione. Anche nel pianto. C’è chi, tra i monaci, parla delle lacrime come un dono. Diceva un prete: “Il pianto rivolto a Dio è la più alta forma di preghiera. Ma che non sia un piangersi addosso!”. “Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli”, dice il salmo 56. Si può dire allora che la consolazione, o la beatitudine, non riguardi solo il tempo che verrà, ma vale già per questo tempo: quelle virtù, quei modi di essere sono già una consolazione mentre fanno pregustare la pienezza del valore che sarà dato in Gesù.

 

Rispetto alla sofferenza e alla persecuzione capiamo di più i miti, i semplici, i pacifici… e volentieri ci accompagniamo con chi ha queste virtù perché da loro sentiamo non venirci minaccia alcuna. I puri di cuore poi ci innamorano, in loro presenza proviamo un’elevazione che sa di terra santa e subito sconfessiamo i pensieri bassi. I puri di cuore riaccendono la nostalgia profonda per quanto inconscia dell’innocenza originaria. Come convitati di pietra, sono testimoni silenti di un’altra vita, di un altro mondo.

 

Diventare altro, così dicono anche i filosofi, è la missione, il destino necessario. È anche la nostra aspirazione ‘naturale’: tutti vogliamo diventare ‘altro’, magari di più, ed è ambizione. Ma non si tratta esattamente di questo. Se il chicco di grano non diventa altro morendo al proprio stato ‘attuale’ muore per davvero. Dice san Paolo: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente…” (Rm 12,2). Diventare ‘altro’ è la nostra necessità vocazionale e una sorta di inquietudine fa strada con noi e ci spinge, ci fruga tanto che spesso per togliercela di torno si ricorre a cure palliative. Quel prete diceva ai suoi: “Che vi venga il mal di pancia”, piuttosto che starsene quieti. E a proposito delle beatitudini diceva: “Sono fatte per noi, secondo la sensibilità o il dono di ciascuno. Sceglietene una, è la vostra”. Il ‘cor nostrum inquietum’ di sant’Agostino. La predicazione di Gesù allora cade nel giusto: occorre diventare altro, rinascere, convertirsi. E non a un obiettivo qualunque, non al riconoscimento sociale, semmai al nostro esser semplice e schietto, all’esser vero, povero e senza addobbi, all’essere pulito, ricco di misericordia, desideroso di giustizia e di pace… Cose che non appartengono alla sfera delle emozioni ma della carne. Talora si ricevono le esortazioni del Vangelo come di una realtà che ‘magari fosse! Per ora contentiamoci dei sentimenti che suscitano in noi’... Non sarà mai.

 

Il brano delle beatitudini è il manifesto della predicazione di Gesù assieme all’invito a porgere l’altra guancia: parole mai dette, e vissute, nella storia. Se questo può confortarci nella direzione intrapresa ed accrescere l'ammirazione per il Signore, rimane che non le emozioni ma il ‘diventare altro’ per via di una di queste voci ci farà entrare nell’essere, cioè nella vita, gustandone fin d’ora le primizie.

 

Valerio Febei e Rita

 

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