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La Pasqua dei discepoli

Briciole dalla mensa - 3° Domenica di Pasqua (anno C) - 1 maggio 2022

 

LETTURE

At 5,27-32.40-41   Sal 29   Ap 5,11-14   Gv 21,1-19

 

COMMENTO

 

La Pasqua di Gesù diventa la Pasqua dei suoi discepoli. Diventa, infatti, il loro «passaggio» dalle tenebre della notte («quella notte non presero nulla») alla luce del mattino («quando era già l'alba, Gesù stette sulla riva»); il loro «passaggio» dalla non conoscenza («non si erano accorti che era Gesù») alla conoscenza («sapevano bene che era Gesù»); il loro «passaggio» dall'infruttuosità («non presero nulla») alla sovrabbondanza di pescato («non riuscivano più a tirar su la rete per la gran quantità di pesci»); il «passaggio» di Pietro dal tornare al suo vecchio lavoro della pesca a seguire Gesù sulla via dove un altro lo condurrà, attraverso il martirio.

 

Anche se questo cap. 21 del Vangelo di Giovanni è un'aggiunta posteriore, per me contiene delle perle uniche. Per esempio, l’enigmatica frase, «nessuno dei discepoli osava domandargli: "Chi sei?" perché sapevano bene che era il Signore», esprime molto bene il chiaroscuro della fede. I discepoli hanno riconosciuto, attraverso la pesca e l'affermazione del discepolo che Gesù amava, che era proprio Lui, risorto dai morti. Eppure il riconoscimento lascia intatto l'interrogativo: anche se «sanno» che è Gesù, hanno bisogno di «credere» in Lui. Hanno il desiderio di porre la domanda sulla sua identità, ma non osano; comunque hanno la certezza che «è il Signore». Ciò che il Risorto dice, mostra di se stesso e compie è sufficiente a eliminare il dubbio. Ma questa evidenza non è vincolante, tanto da poter fare a meno della fede. Gesù rimane un interrogativo riguardo alla sua identità: «per te, chi sono io?». È questa la fede.

 

«Portate un po' del pesce che avete preso ora». Gesù invita i discepoli a portare ciò che Lui ha fatto loro miracolosamente pescare. E quando arrivano, trovano già «un fuoco di brace con del pesce sopra». Portano il loro pescato, ma trovano il pesce già pronto. In questo modo, il Vangelo rivela che Gesù non annulla la libertà dell'uomo: i discepoli portano il frutto della loro pesca. Ma Lui orienta la loro libertà, perché non abbiano a smarrirsi nella loro infruttuosità: chiede di portare ciò che Lui ha preparato per loro. Questo è un nuovo effetto della sua signoria nell'amore.
Teniamo poi conto della realtà simbolica del cibo, unita alla sua sovrabbondanza, che rinvia alla moltiplicazione dei pani, con tutto il suo ulteriore significato simbolico di allusione all'Eucarestia nel Vangelo di Giovanni («Io sono il pane della vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo resusciterà nell'ultimo giorno», 6,51.54). Attraverso il cibo che i discepoli trovano preparato, il Risorto si dona come presenza preveniente: una presenza compiutasi con il dono della sua vita, a cui si partecipa eminentemente mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue. Dunque l'Eucarestia è un cibo di grazia, ma di una grazia che si fonda sulla realtà umana, come il lavoro e la fatica dell'uomo. Una grazia che quindi rispetta l'uomo e la creazione, anche se li trascende, non riducendosi ad essi, come avviene, appunto, nell'Eucarestia.

 

Le tre domande di Gesù a Pietro sul suo amore per Lui, da Agostino in avanti sono state accostate ai tre rinnegamenti del discepolo. In realtà, non si addice a Gesù il comportamento di angosciare il suo discepolo, anche se era colpevole, rigirando, in un certo senso, il coltello nella piaga. La dichiarazione risponde invece all'antica procedura giuridica per decidere, per esempio, un acquisto: Abramo, che copra un campo per seppellire Sara, per tre volte dichiara il prezzo. Gesù, quindi, chiede a Pietro una dichiarazione formale del suo amore, sulla quale fondare la sua figura di espressione della Chiesa (quella rappresentata dai Vangeli sinottici) accanto al discepolo che Gesù amava, che è il riferimento della Chiesa giovannea.
Le prime due volte Gesù rivolge a Pietro la domanda usando il verbo agapáo, che è l'amore totale, gratuito, oblativo. E Pietro risponde con il verbo filéo. La terza volta anche Gesù usa questo verbo. Osservando le ricorrenze di questi verbi nel Vangelo di Giovanni, si ricava che è sbagliato vederne due gradi di amore, come talvolta si interpreta: uno assoluto e perfetto (agapáo) e l'altro (filéo) più riferito ad un sentimento amicale. Per esempio, Gv 16,27 usa quest'ultimo per rivelare la più stretta relazione d'amore che esiste originariamente tra il Padre e il Figlio, e che si dipana nella relazione con gli uomini. Possiamo dire allora, che il «voler bene» (filéo) è dello stesso ordine dell’ agápe, ma più a livello particolare: indica la concretezza dell'amore, la dimostrazione di affetto e di attaccamento. Allora, con le tre domande, Gesù percepisce in Pietro la qualità dell'amore con cui il Padre lo ama. È la "personalizzazione" dell'amore di Pietro per il suo Signore. E questo lo costituisce rappresentante della tradizione sinottica, accanto alla tradizione giovannea. Pietro non è capo degli apostoli perché ha un potere giuridico riconosciuto, ma perché la Pasqua di Gesù, con il dono della sua vita e dello Spirito Santo, lo ha abilitato a vivere un amore pieno e "personalizzato" nei confronti del suo Signore e di tutti coloro che Lui gli affiderà.
Tanto è vero che, subito dopo, il Risorto profetizza il martirio del primo degli apostoli: «questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio». Pietro donerà la vita, proprio per questo amore.

 

Ma tutto ha preso le mosse dall'esperienza del riconoscimento di Gesù risorto dai morti. La "forma" del Risorto non è riconosciuta - se non dal discepolo che Gesù amava - perché il suo corpo era trasfigurato dall'amore, che l'aveva fatto rivivere, dopo la sua disponibilità a morire. Solo amando, Pietro può riconoscere Gesù e vivere la sua relazione con Lui, e fra gli uomini.

 

Alberto Vianello

 

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