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La moneta con l'immagine dell'uomo vivente

Briciole dalla mensa - 29° Domenica T.O. (anno A) - 22 ottobre 2017

 

LETTURE

Is 45,1.4-6   Sal 95   1Ts 1,1-5   Mt 22,15-21

 

COMMENTO

Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni».
Ciro, il nuovo padrone del Medio Oriente, che conquista Babilonia senza neppure dare battaglia, viene salutato come un liberatore. Nel testo di Isaia che leggiamo in questa domenica viene chiamato «eletto del Signore». Con la generosità dei forti pratica una politica liberale; lascia in vita i vinti; rispetta i loro beni e garantisce a chiunque la libertà di culto. Come gli altri popoli, anche i Giudei deportati traggono beneficio dalla liberalità del re persiano. Ciro è l’uomo che Dio ha scelto per liberare il suo popolo e ricostruire il tempio.
Il testo di Isaia mette sulla bocca di Dio queste parole: «Io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca». Il progetto di Dio, che è la giustizia e il diritto, viene realizzato attraverso l’azione di un pagano! Con ogni probabilità gli uditori del Secondo Isaia, lo scrittore anonimo di questa sezione del libro, hanno stentato ad ammettere che un re pagano potesse assolvere un ruolo di così vasta portata religiosa. Ma il profeta taglia corto. E’ Dio che rende le persone “pronte all’azione”, anche se non lo conoscono. E nessuno può contestare l’opera di Dio: “Dirà forse la creta al vasaio: «Che fai?»”.
Dio fa concorrere uomini e cose alla costruzione di un universo dove tutto è concepito e organizzato in funzione della salvezza «perché sappiano dall’oriente all’occidente che non c’è nulla fuori di me».
Non c’è, nel testo di Isaia, un linguaggio servile o opportunista. Il profeta non si inchina davanti al potere, ma si rivolge ai credenti, a noi, per affermare che i padroni della scena politica, lo sappiano o no, anche se non lo vediamo nell’immediato, prendono anch’essi parte alla realizzazione del disegno di Dio. La vita umana e la storia hanno un senso e una direzione. Pur lasciando all’uomo l’esercizio della sua responsabilità, Dio guida la storia e la apre a speranza. E gli strumenti per realizzare i progetti di Dio non sempre portano il titolo di “re cattolicissimo”. Anche un pagano può essere argilla nella mani del Signore.

 

Della seconda lettura desidero sottolineare brevemente solo alcune cose, che sono fatte continuamente presenti dall’apostolo Paolo.
L’operosità della vostra fede. Non si tratta di avere una fede aperta all’impegno, inteso come approdo della fede stessa, ma di un qualificativo di questa fede che è un atto: la fede è un’adesione a Dio e al suo Cristo che non si esaurisce in un’adesione intellettuale, ma che diventa alleanza, relazione fruttuosa che impegna tutta la vita.
La fatica della vostra carità. La fede agisce attraverso l’amore: «In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale, o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa mediante la carità» (Gal 5,6). E questo è “fatica”, perché chiede di raggiungere con l’amore anche il più lontano: «Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?» (Mt 5,46-47).
La fermezza della vostra speranza in Cristo Gesù. Il termine qui usato (ypomonè) è molto importante nel N.T.; è tradotto anche con “costanza”, “pazienza”, “perseveranza”, “resistenza nella prova”. Non si tratta di sottomettersi stoicamente agli avvenimenti, sperando di potercela cavare in qualche modo, ma di una solidità che non ha la sua sorgente in noi, ma in Cristo. Forse questa virtù si rivela come la più specifica del cristiano, e la più necessaria. Oggi, soprattutto, occorre “stare saldi” nel Signore.

 

Il Vangelo ci propone un tema che è di grandissima attualità e che riguarda il nostro rapporto di credenti con il potere.
L’occasione è fornita da un incontro, non proprio pacifico, tra Gesù e un gruppo di farisei ed erodiani. C’è molta malizia in questo incontro, perché i farisei avevano tenuto consiglio “per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi”.
Dopo averlo blandito con finti apprezzamenti, gli interlocutori chiedono a Gesù: «E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?». C’è da notare che i romani si riservavano il conio delle monete d’argento, segno di sovranità, e il denaro romano portava l’effigie dell’imperatore. Il legame esistente tra moneta e potere rappresentava un caso di coscienza per i Giudei. Pagare le tasse con la moneta imperiale significava riconoscere la sovranità dei romani su Israele, mentre per loro l’unico re del popolo era Dio.
Tutti i sinottici sottolineano la “trappola” preparata nei confronti di Gesù: «Bisogna o no pagare le tasse a Cesare? Dobbiamo o no riconoscere il potere dei romani, pagani ed idolatri?».
Gesù non elude la domanda e risponde: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Occorre rendere a Cesare quello che egli può normalmente chiedere, nel caso specifico l’imposta, in funzione del suo potere. Gesù non intende affatto sostituirsi a questo potere attraverso l’affermazione di un messianismo politico-religioso, tanto desiderato dal partito degli zeloti, ma anche da numerosi suoi discepoli. Affermando che bisogna rendere a Dio quello che è di Dio, Gesù dichiara la priorità e il primato di Dio su Cesare. Solo lui, come preghiamo nel “Padre nostro”, è “nei cieli”, sta in alto, “al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione” (Ef 1,21).
Questo implica da parte di Cesare l’assenza di ogni violazione del diritto universale di Dio sull’uomo. L’uomo non può farsi Dio, e nessuna violenza nei confronti della creazione può essere tollerata da parte del potere.
L’unica vera immagine di Dio non è impressa sulle monete, ma sul volto dell’uomo vivente.
C’è inoltre, nella risposta di Gesù, un invito ad accogliere il regno di Dio, e a riconoscere in lui il messia che viene a instaurare questo regno. Gesù non annuncia un regno che è in concorrenza con quello di Cesare, non viene per prendere il posto di Cesare e ad affermare un potere che si costruisce con i criteri di questo mondo.
Per noi, discepoli di Gesù, accogliere il regno è impegnarci per stili di vita coerenti con il Vangelo, è cercare orizzonti di senso che diano valore alla nostra umanità, creata ad immagine di Dio, senza escludere nessuno. E’ desiderare un regno dove vince su tutto il perdono e la misericordia.
E’ proprio del potere dominare, spesso con la forza e il sopruso, con atti di violenza e di morte.
E’ proprio di Dio affermare il suo regno nella mitezza del cuore, nell’amore per il nemico, nell’offerta di una comunione con tutto e con tutti.
Dare a Cesare quello che è di Cesare è dargli solo il tributo, la lealtà nell’osservanza della legge, la disponibilità generosa e intelligente per edificare una vita buona per tutti, vigilando sugli atti di ingiustizia, di corruzione, di interesse privato.
Dare a Dio quello che è di Dio è restituire l’intera nostra vita a colui che ne è l’origine.

 

Giorgio Scatto

 

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