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La luce per affrontare il buio

Briciole dalla mensa - 2° Domenica di Quaresima (anno B) - 25 febbraio 2024

 

LETTURE

Gen 22,1-2.9.10-13.15-18   Sal 115   Rm 8,31-34   Mc 9,2-10

 

COMMENTO

 

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte». La vita dei tre discepoli alla sequela del Maestro Gesù cominciava ad essere come quel cammino verso la cima del monte: una vita in salita. Infatti ci troviamo al cuore di una crisi tra Gesù e la gente, ma anche con la sua comunità c’è una profonda incomprensione. Pochi giorni prima, Gesù aveva troncato di netto la richiesta di segni, di miracoli, di cose eccezionali, che le folle chiedevano (cfr. Mc 8,11-13). Poi aveva duramente rimproverato Pietro, che rifiutava la figura, in Gesù, di un Messia ripudiato dall'autorità, ucciso, risuscitato dopo tre giorni (cfr. Mc 8,31-33). Per i discepoli diventava davvero come una salita l’entrare in un'ottica paradossale per il mondo: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35). Un Messia che non raduna truppe, non frequenta quelli "giusti", quelli che contano; un Messia che non si fa pubblicità, che è un umile, un mite. A seguire Lui, si perde o si guadagna la vita?

 

Sono domande che anche noi ci troviamo a porre, quando ci confrontiamo con la fede. È come se avessimo bisogno di un appoggio, di un sostegno, di una conferma. Forse sta qui il significato della trasfigurazione. Ma prima bisogna affrontare quella salita, quel lasciarsi prendere a parte rispetto ai nostri tanti pensieri; l'accettare di essere da soli, per vedere Lui solo, colui che, alla fine rimane, come esito vero della trasfigurazione: «Guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro».

 

«Fu trasfigurato davanti a loro»: sì, proprio «davanti a loro». Questa volta, la lettura dell’episodio evangelico mi ha portato a porre l'accento su tale espressione: Gesù viene trasfigurato, ma al loro cospetto e alla loro vista. Proprio a loro tre, che si troveranno poi davanti ad un'altra visione, nell'orto degli ulivi: una trasfigurazione all’incontrario, quando non ci sarà più il loro Maestro in veste splendenti, ma con un'anima triste fino alla morte, fra la paura e l'angoscia (cfr. Mc 14,32-34).
Proprio per questo, loro tre avevano bisogno di essere confermati, perché il legame con la sua morte e la sua risurrezione è fortissimo ed essenziale.

 

Sono ancora impressionato da una mostra sulla Sindone, vista qualche mese fa. Riguardo a quel lenzuolo su cui è stato avvolto il corpo morto di Gesù, la scienza ci dice che per 0,06 sec. si è sprigionata dal di dentro, quindi dal corpo, una luce che non si conosce in natura e che è superiore a quella che possono produrre delle bombe atomiche: quella luce si è impressa sul telo attorno al corpo e ne ha riprodotto i tratti. È la luce della risurrezione: ci dice la fede. Ed è come se essa fosse momentaneamente anticipata nella trasfigurazione. Quella luce di vita divina, più forte della morte, che abitava nel segreto del Figlio dell'uomo, per un attimo si è come liberata: irraggiava sul volto di Gesù, perfino sulle sue vesti. È come quando il cuore è nella gioia, e la gioia si comunica al volto e, di gioia e di festa, sono anche i vestiti: un irraggiamento totale.

 

Ma alla luce si aggiunge la voce: «Questi è il Figlio mio, l'amato, ascoltatelo!» È la voce del Padre, e la voce della Parola. Quella voce è come se dicesse: non vi siete sbagliati. Siete in difficoltà e vi domandate se vale proprio la pena di seguirlo, di andar dietro a uno che è mite e umile, uno che va a perdere la vita. Ebbene, ne vale la pena. Ascoltate Lui.
I tre discepoli avevano bisogno della conferma sul monte, perché, nella sequela di Gesù, avrebbero dovuto affrontare ben altro monte, quello del Calvario. Perciò la trasfigurazione è come una conferma, come un velo alzato sul futuro, che è il dono della vita e della risurrezione, il futuro più futuro di Gesù di Nazaret, il futuro più futuro dei discepoli.

 

A rendere più forte la vita per i momenti più pesanti spesso servono le prove, come un collaudo. Il mistero della trasfigurazione viene a dirci, invece, che puoi affrontare le difficoltà più grandi anche grazie ad esperienze positive: se hai visto la luce, puoi affrontare il buio del Venerdì Santo, il buio dei giorni difficili.

 

Di quell'esperienza sul monte Pietro lascia come un testamento alla sua comunità: ricorda la voce ascoltata sul monte e dice che «abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino» (2Pt 1,19). La stella del mattino non si è ancora levata: i giorni, i nostri giorni, sono difficili, con una globalizzazione e una gravità della guerra che la storia non ha mai conosciuto.
La conferma sul monte ci scombina e ci determina, perché ci dice di credere nella sobrietà, nella mitezza, nell'umiltà, nella limpidezza: cose che oggi sembrano perdenti. Ma celebrare la trasfigurazione in questa domenica comporta scendere dal monte con questa conferma. E camminare dietro a Gesù, in questo mondo, forse come i discepoli, cioè nel disagio, nell'incomprensione, nella non piena coscienza, prima di essere sorpresi dalla luce della risurrezione.

 

Alberto Vianello

 

 

 

La trasfigurazione è il secondo appuntamento quaresimale dopo la chiamata a conversione. Quel corpo trapassato dalla luce rimanda alla risurrezione, un’esplosione di luce con cui il sepolto riprende vita e si imprime nel telo della sindone. Anche la trasfigurazione è un passaggio di stato, una realtà sovrapposta e coesistente all’altra, umana e divina. Ci riguarda?
Come ci riguarda Cristo in tutto quel che fa e dice. “Alla tua luce vediamo la luce”, recita il Sal 35. La trasfigurazione fu anche preparazione per i discepoli poco prima dei giorni decisivi, così per noi all’inizio della quaresima la Chiesa ci propone la meta, quel che ci è promesso, quel che siamo in realtà, invisibile perché lo sguardo è puntato a terra e il peccato ci lega giù. La trasfigurazione può sostenere chi si accinge alle fatiche della conversione perché non si scoraggi.

 

Convertirsi vuol dire cambiare direzione, volgersi altrove o meglio in sé stessi come suggerisce sant’Agostino. Piuttosto che come pratica ascetica e rinuncia, la conversione andrebbe vista come astensione da quel che non ci appartiene eppur ci lega, dagli automatismi, dai luoghi comuni che ripetuti scavano solchi nei quali ricade il pensiero, il comportamento.
Il peccato è un abito alienante ed una forza di gravità che ci attira a sé, impedendoci la facoltà di pensare altro. ‘La realtà è questa, non ci puoi far nulla, gli uomini sono cattivi e questo è un mondo di ladri’. ‘Ah, se tutti fossero migliori, ma purtroppo…, tanto vale…’. Nei fatti la realtà corrisponde a quello che ‘si sceglie di vedere’. Ecco di che è fatta la realtà.
In un’intervista passata in tv, qualcuno fece osservare a Moravia che i suoi libri erano pieni di storie compiaciute di sesso. Lui rispose volendo giustificarsi: “Se la realtà fosse fatta di fagioli io parlerei di fagioli”. Si schermiva coi fagioli ed il senso era questo. Allora non gli fui più debitore di considerazione alcuna.

 

Ma per stare in questi termini, allo stesso modo è lecito affermare che la realtà è la trasfigurazione di Gesù, ma non nel senso che l’una vale l’altra: il discrimine sta nel fatto che la prima è disperazione e infelicità, la seconda è autenticità e gioia. La gioia è la prova che tutto va bene. Isaia (33,14-15) si chiede chi potrà sostenere il giudizio di Dio. E risponde: “Chi ha mani innocenti e cuore puro.. chi si tura gli orecchi per non udire fatti di sangue, chi chiude gli occhi per non vedere il male”, perché la vista del male inquina il cuore, cominciando col generare tristezza. Ma è pur vero: la realtà è frutto del nostro pensiero e il pensiero è determinato da ciò che vediamo, tocchiamo ed è il cuore che in ultima analisi orienta il nostro sguardo. Gesù parlerà a lungo della necessità di pulire l’occhio del cuore e che quel che contamina l’uomo è quel che esce da lui.

 

La quaresima è un tempo di resettaggio, o riprendendo sant’Agostino, di ritorno in sé stessi: in interiore homine habitat veritas, che non ha bisogno di traduzione. Il che vuol dire che c’è un luogo in cui è reso possibile giudicare il pensiero, una funzione o facoltà che precede il pensiero e lo rifonda. Questo luogo è lo stesso spirito dell’uomo e la fede è necessaria per porre il nostro centro veritativo oltre la realtà come rappresentata dal pensiero. Noi siamo, diventiamo quel che pensiamo. Non è un’espressione nuova: è Marsilio Ficino, seconda metà del Cinquecento. La mente ha il potere di ‘fare’ il mondo, per questo il primo comandamento è ‘amare Dio con tutta la mente, cuore, anima, ecc..’.

 

Il richiamo della quaresima (di tutto il Vangelo) è a vigilare, a riconoscersi per altro dalle esperienze inautentiche, dalla ‘realtà’, cioè dalle attitudini comportamentali che ‘ora’ ci definiscono, indotte dai fili invisibili del non essere o del male. La trasfigurazione ci è data come icona in cui sperare contro ogni speranza, osando riconoscervi la nostra natura, nonostante tutto. Lo sanno bene gli ordini contemplativi che fanno di quella la loro festa il 6 agosto.
Sul santo monte Gesù riceve il mandato, eredita la legge ed i profeti e riapre ‘il cielo’, la porta del regno di Dio. Perciò vale “Ascoltatelo!”. Cristo così diventa la forza che opposta alla gravita del peccato ci attira a sé. Tra i due poli prevale quello al quale ci volgiamo, non senza lotta. Se il peccato ci trae nella dimensione greve dell’esistenza, l’amore di Cristo ci ha già salvati, bastando la nostalgia di Lui, di noi stessi.

 

Valerio Febei e Rita

 

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