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La luce di non vedere più solo peccati

Briciole dalla mensa - 4° Domenica di Quaresima (anno A) - 19 marzo 2023

 

LETTURE

1Sam 16,1.4.6-7.10-13   Sal 22   Ef 5,8-14   Gv 9,1-4

 

COMMENTO

 

Al centro del Vangelo di questa domenica c'è il tema dell'illuminazione, espresso dalla guarigione dell'uomo cieco dalla nascita. Racconto che diviene pedagogia verso la fede in Cristo. Il testo presenta le diverse reazioni alla guarigione da parte delle persone che compaiono nella narrazione. E sempre sorge la domanda: queste persone sanno vedere? L'evento della guarigione di un uomo cieco dalla nascita cosa cambia nel loro modo di vedere la realtà? Il ritrovamento della vista da parte di quell'uomo diventa giudizio sulla capacità di vedere da parte degli altri, e di noi lettori

 

In questo senso mi colpisce un fortissimo contrasto che attraversa tutto l'episodio, un contrasto che non è marginale o alla superficie, bensì di fondo: è quello fra il cieco, che Gesù guarisce, e il gruppo dei farisei. Una opposizione insanabile che si estende in tutto il racconto. Al punto che la presenza di Gesù nell'episodio è confinata solo all'inizio e alla fine. E il cieco, che si ritrova con gli occhi aperti, appare essere solo a sostenere la contrapposizione, mentre Gesù è assente. Dura, estenuante contrapposizione.
Soprattutto mi colpisce un termine che ricorre più volte, insistentemente, il termine «peccato»: termine che troviamo all'inizio e alla fine del brano. «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (v. 2). «Siccome dite: "Noi vediamo", il vostro peccato rimane» (v. 41). Non solo: sulle labbra dei farisei il termine «peccato» è il più ricorrente, quasi un'ossessione. Essi esprimono una religione ridotta a questioni di peccato. Ma non possiamo attribuire questa ossessione solo al gruppo dei farisei. Ne erano partecipi anche i discepoli di Gesù, tanto è vero che, vedendo il cieco, nato cieco, loro si mettono a disquisire sul peccato: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?»

 

Per tutti questi il peccato è come se fosse l'unica categoria interpretativa della realtà e quella più decisiva della fede. Ma Gesù sbarazza subito il campo: «Non lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Come a dire: non deprimete la fede, non impoveritela in una questione di peccati. Gesù qui rivela che la fede è stare in attesa dell'opera di Dio. Invece, per tutto il brano, appare chiaro che ai farisei non interessava l'opera di Dio, anzi la negavano: l'avevano davanti agli occhi nella condizione del cieco guarito da Gesù, ma a loro non interessava, perché, più delle sorprese che Dio compie, per loro contava la categoria del peccato, le loro classificazioni circa le violazioni della morale.
«Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». «Noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore». E alla fine, dicono al cieco: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». Proprio dinanzi al cieco, guarito da Gesù, si manifesta come questa categoria del peccato sia quella che rende veramente ciechi gli uomini. Uno è cieco davanti all'altro, perché neppure lo sfiora il caso personale di quell'uomo o di quella donna: per lui è solo il pretesto per denunciare il peccato. Si è ciechi davanti a Dio, perché il Signore opera aldilà dei nostri schemi, mentre noi non ce ne accorgiamo. È proprio la categoria, povera, del peccato che rende ciechi gli uomini religiosi.

 

All'opposto, assistiamo, nel racconto, alla illuminazione progressiva ed emozionante del cieco. Provo a immaginarmelo mentre barcollando, ma pieno di fiducia, ancora a occhi chiusi, va verso la piscina di Siloe. Si lava e riacquista la vista. È evidente il richiamo al testo della creazione dell'uomo in Gen 2 nei gesti di guarigione compiuti da Gesù. Il male dell'uomo viene assunto da Gesù come luogo in cui Lui narra lo sguardo di Dio sull'uomo e compie l'azione di Dio. E appare chiaro che il gesto di Gesù è segno, manifestazione delle opere di Dio, non semplicemente guarigione fisica. Dunque non è una luce solo negli occhi, è una luce dentro, che porta l’ex cieco, progressivamente, a scoprire la realtà divina di colui che gli ha aperto gli occhi: «Quell'uomo che si chiama Gesù» e poi: «È un profeta…», «È da Dio», «Io credo che tu sei il Figlio dell'uomo». E questa illuminazione, questa luce interiore (che per noi è il battesimo) lo rende libero, coraggioso, disarmante nel presentare la realtà che i farisei rifiutano, legati alle loro classificazioni, ai loro schemi, alla loro presunzione di sapere tutto, di dettare leggi, e di vedere non persone ma peccati. Che pesantezza!
Uomini come i farisei hanno così complicato la religione, che non sanno più guardare in faccia la vita. Invece il cieco guarito da Gesù esprime leggerezza: la fede in Gesù lo rende estraneo a tutte le complicazioni dogmatiche, moralistiche e canoniche: va al cuore della persona, del problema, della questione riguardo al destino di felicità dell'uomo.

 

E alla fine, l'uomo incontra Gesù, non sapendo nulla del Figlio dell'uomo, ma appena Gesù gli dice: «Lo hai visto: è colui che parla con te», egli crede e adora. Il vederci passa attraverso l'ascolto, mentre la cecità è dovuta al non ascolto. E alla domanda dei farisei che si lasciano interpellare dalle parole di Gesù, Lui risponde che il problema non è la cecità, ma la presunzione, il ritenersi nel giusto. Accettare lo sguardo di Gesù su di noi significa imparare a vedere noi stessi in verità. Altrimenti, se siamo impegnati a difendere ad ogni costo le nostre certezze (o le nostre insicurezze), allora non lasciamo spazio per ascoltare e impediamo che in noi si apra una breccia che ci conduce ad accogliere l'azione rinnovatrice di Dio. Ma non riusciamo nemmeno incontrare gli altri là dove lo possiamo: nella nostra umanità.

 

Alberto Vianello

 

 

 

Tommaso è un bel ragazzo di 24 anni. Tommaso ha disabilità cognitiva. Stava col padre e la madre in un albergo di san Martino di Castrozza. Si pranzava. L’albergatore si è avvicinato e ha invitato la famiglia a consumare il pasto in una saletta appartata… La mamma poi ha denunciato la cosa su Repubblica, pochi giorni fa. Brava mamma!
“Rabbì, ha peccato lui o i suoi genitori perché sia nato cieco?”. La disabilità cognitiva di Tommaso non sarà frutto di peccato ma è pur sempre giudicata una colpa. Ma non sarà vero il contrario: Il disagio che essa produce nei ‘sani’ manifesta il loro deficit cognitivo? “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘noi vediamo’, il vostro peccato rimane”.

 

Nella disabilità, nella malattia o peggio non c’è causa di peccato. A noi capita di voler dare spiegazioni, trovar colpe che in qualche misura ci rassicurino. ‘Eh, mangiava troppo e male…’. Non è così, ma fingiamo di crederci. Un prete citava san Paolo (Corinti, 12): “Le membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie… Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre”. La disabilità contiene un grande mistero: porta un male che è di tutti e lo purifica. Fu la sensazione che provai trovandomi in un locale (pizzeria e balera) allorché entrò un gruppo di ragazzi festosi di cui alcuni erano in carrozzina e cominciarono a girare con quelle sulla pista a ritmo di musica. Dissi tra me: questa scena nobilita il luogo, qui la civiltà è andata molto avanti.

 

Il Signore ci dia la fede nella sua presenza, che è altro rispetto all’intelligenza. A questo tende il brano di Giovanni, che racconta gli episodi del Vangelo come sacre rappresentazioni, scene vivaci e dettagliate tali da rivelare umori e contraddizioni. C’è un fatto che fa scalpore, non si è mai visto che un cieco nato abbia preso a vedere. C’è una ricostruzione oggettiva, documentata da testimoni ed un’altra viziata ostinatamente contrapposta alla prima. Chi sono i ciechi?
Un miracolo che è segno, sviluppo di una parola efficiente: “Io sono la luce del mondo”, come domenica scorsa: “Io sono l’acqua viva”, oppure in Marco 2: “Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati , ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua”. I fatti confermano le parole.

 

La scena è finanche divertente. Dicono: ‘Non può essere vero’. ‘Non è lui ma uno che gli somiglia’, e quello urla: “No, vi dico, sono proprio io!”. Poi entrano in azione i pezzi grossi, quelli che hanno potere di certificare ciò che è e ciò che non è, il giusto e l’ingiusto: i chierici. Era veramente cieco quel tale? Più facile che sia un truffatore. Vogliono i dettagli. Come ha fatto? Di sabato non si possono fare guarigioni. ‘Venite gli altri giorni a farvi guarire!’. Magari fosse!
‘E ha fatto del fango, di sabato. È vietato’. Ah, questa poi! ‘Non viene da Dio!’. Gesù, che bisogno c’era di fare del fango? Per far parlare quelli? Convocano i genitori, che confermano: ‘Nostro figlio è nato cieco, non sappiamo altro’. E si tirano fuori: coi sacerdoti meno hai a che fare meglio è. Per finire con la stoccata dell’ex cieco nato, che punzecchia ironico: ‘Come mai tante domande, tanta inquisizione? Volete diventare suoi discepoli?’. A momenti lo ammazzano. ‘Via, malnato!’.

 

Ma la vista degli occhi non basta, lo sa chi la va perdendo. C’è dell’altro da ‘vedere’, dell’altro di cui gioire. Ora noi possiamo dire che no, è tutto qui, i miracoli sono fantasie, negare quel che gli occhi pur vedono e restare nel ‘peccato’ dell’incredulità. Oppure aprirli alla realtà completa, con stupore riconoscere il Figlio dell’uomo che apre gli occhi a chi non vede ma vuole, li chiude a chi non vuole vedere.

 

Valerio Febei e Rita

 

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