Briciole dalla mensa - 3° Domenica di Pasqua (anno C) - 4 maggio 2025
LETTURE
At 5,27-32.40-41 Sal 29 Ap 5,11-14 Gv 21,1-19
COMMENTO
«Io vado a pescare», dice Pietro. Una frase che sembra avere il sapore di voler tornare alla vita di prima, nonostante i tre anni passati con Gesù e le apparizioni del Risorto, che ha inviato i suoi discepoli a portare la pace nel mondo, come abbiamo ascoltato domenica scorsa.
Ma preferisco astenermi da una valutazione su questa decisione di Pietro, alla quale fanno seguito anche gli altri discepoli presenti. Perché anche se il tornare alla normalità di prima può essere letto come una rinuncia e un venir meno, è pur vero che è proprio in questa normalità del ritorno al lavoro precedente che si mostra ancora Gesù risorto dai morti.
In effetti, non ci troviamo più nel cenacolo, a Gerusalemme, ma lungo il lago. Non si condivide il Pasto e la Parola, ma si prendono in mano le reti e si prepara la barca. E si compiono le azioni più comuni, quelle di ogni lavoro di pesca: uscire di notte, prende il largo, calare le reti. Sorge immediato il collegamento simbolico con la nostra vita di ogni giorno, fatta di gesti soliti, ripetitivi, necessari per il vivere materiale. E, almeno qualche volta, anche per noi l'esperienza della infruttuosità, della barca vuota, di una notte di fatica sprecata.
E lì, in quella normalità, la domanda di Gesù: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». È sì una domanda che richiama alla dura realtà, ma non è una domanda fredda, distaccata. Cioè non è una domanda come quella che ti dice: «Hai visto che…», per farti constatare ancora di più un fallimento. Infatti la domanda di Gesù si apre con un'espressione di tenerezza: «Figlioli…». È un appellativo che, nel Vangelo di Giovanni, è usato solo un'altra volta: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato la luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza» (Gv 16,21). Sta a dire che i discepoli nascono dalla risurrezione: a questa loro nuova realtà Gesù li vuole richiamare.
Dunque la parola di Gesù il Risorto ci raggiunge nelle nostre barche vuote, nei nostri fallimenti; ed è una parola che non ci chiude nella constatazione di un vuoto. Non dice: «Sei un buono a nulla»; ma che apre a una nuova possibilità, grande possibilità: essere generati a figli di Dio, figli della risurrezione. È, dunque, una parola che spinge a tentare di nuovo, a non essere rinunciatari, e a gettare ancora le reti. Il Risorto sta proprio in questa spinta interiore a credere che la ci si può fare, che bisogna avere il coraggio di gettare la rete da un'altra parte e dunque ritrovare fiducia, superare la delusione.
Sta anche a dire - e qui mi pare che arriviamo al in cuore - che Gesù risorto è presente con noi, ma non ci sostituisce. È bellissimo, in questo senso, il particolare del fuoco di brace con il pesce già preparato e il pane, che i discepoli trovano a riva. Eppure Gesù dice loro: «Portate un po' del pesce che avete preso ora». Gesù chiede ai discepoli di portare quello che Lui ha già preparato, insieme a quello che è il frutto della loro fatica. È come una forma di espressione del nuovo assetto del suo essere il Risorto: Gesù non annienta la libertà e l'impegno dell'uomo. Invece Egli orienta le nostre fatiche, perché non abbiamo a smarrirci. Così stanno insieme il pesce pescato da Pietro e gli altri, e il pesce già preparato da Gesù, così da non distinguerli più. Anche questo esprime una vita. Il Risorto è nella normalità.
La cifra di luce di questa normalità, toccata dalla presenza del Risorto, può essere anche la lettura del dialogo successivo fra Gesù e Pietro e il mandato affidato al discepolo. Infatti «amare» e «voler bene», nella nostra lingua esprimono due "livelli" di affetto. Ma l'uso dei due verbi greci, nel Vangelo di Giovanni, non permette questo tipo di distinzione. Il verbo agapào indica l'amore pieno, totale, gratuito, impegno di sé senza riserve: l'esempio è l'amore materno per il proprio piccolo. Filéo è dello stesso ordine di agapào, ma è usato per dire un amore più particolareggiato, che impegna la persona che ama in quanto tale nella concretezza della sua relazione. Sottolinea l'affettività nelle relazioni delle persone fra loro e con Dio. Ed è usato anche per l'amore fra le persone divine; in 16,27 parla del rapporto del Padre con i discepoli, fondato sul rapporto dei discepoli con Gesù, sempre espresso con questo verbo dell'amore, filéo.
Dunque per due volte Gesù interroga Pietro sul suo amore di agàpe, e Pietro risponde che non solo lo ama di tale amore, ma anche di un sentimento più concreto e particolare (la filìa). Così, nella terza domanda, Gesù chiede conferma a Pietro di questo, usando anche lui il verbo filéo, e Pietro lo conferma. La triplice domanda può corrispondere all'uso di una ripetizione tre volte di una dichiarazione di fronte a testimoni secondo un'antica procedura giuridica, per stabilire un patto fra le persone.
Perciò il ruolo di Pietro nella comunità cristiana sarà di amare il Signore Gesù amandolo nei fratelli che la vita gli donerà: un amore totale e pieno, ma reso concreto e particolare, come Pietro è stato amato da Gesù, anche nel suo rinnegamento.
Alberto Vianello
Cosa aveva reso Tommaso, cosa ci rende duri e tardi a credere? Quale è la radice della negazione che causa il richiamo di Gesù? Centrano le ferite, quelle subite e quelle inferte e quella d’origine? Esse generano sfiducia, induriscono il cuore e lo rendono inadatto alla speranza. Tommaso probabilmente non aveva vissuto la passione del Maestro come condivisione del suo stesso male ma semmai come se tutto è male ed era fuggito. Il pianto, la sofferenza di Gesù è il nostro pianto. “Se tu non ti lascerai lavare non avrai parte con me”.
Ma poi egli è risorto “perché non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere”. La compartecipazione del suo dolore innocente al nostro ci rende vigili, teneri, positivi. Nel quotidiano, dove, passate le feste, facciamo ritorno. Dove è tornato Pietro con gli altri: dopo le vicende enormi di quei giorni i discepoli si prendono una pausa, non hanno programmi, tornano alle opere usuali, a pescare. C’è Tommaso, ci sono i figli del tuono e c’è anche Natanaele, uscito allo scoperto, lui uno dei capi. Gesù ritorna anche lui in Galilea, per prepararli. Li aspetta al termine di una notte magra. Li vediamo remare stanchi, infreddoliti, bagnati per l’umidità. Tra la nebbiolina del primo mattino un tale sulla riva dice loro di gettare ancora la rete in un punto preciso. Era già successo. Lo fanno. La rete è strapiena. È lui. Il solito Giovanni che il cuore rende perspicace. Pietro è il diesel ma si lancia, gli altri tornano remando a fatica.
È il quadro di una vita che riprende a scorrere (quasi) normalmente, con gli obiettivi modesti di sempre, di tutti. Non sanno di essere contenitori di un potere enorme, capace di trasformare il mondo e la vita dei singoli. Ancora non sanno che l’energia che proviene dal sepolcro vuoto cambierà la storia e oggi non ha ancora finito l’opera finché la storia procede.
Cosa manca perché siamo noi i discepoli ignari che vanno a pescare? Nei secoli il potere della risurrezione non si è esaurito. Ma in genere ci limitiamo a riferire l’opera di salvezza all’ambito personale. Ci sta, ma non è tutto.
«Il cristianesimo non si completa nella devozione ma nella qualità dei rapporti tra la gente, che è sempre un fatto politico riguardando la polis. L’intenzione di Dio infatti non è (solo) la salvezza dei singoli ma quella del mondo, la sua creatura». Lo dice bene papa Francesco.
Allora il Signore torna, è lui che ha preparato la colazione e li accoglie. Poi riprende la formazione. Pietro, mi ami, mi ami, mi vuoi bene? In altre parole: se mi ami va’, custodisci il mio gregge.
Sappiamo che quel che renderà Pietro capace del mandato sarà la Pentecoste, in azione anche nel discorso che egli fa al sinedrio al completo, lo stesso che pochi mesi prima aveva messo su l’ignobile farsa con cui aveva condannato Gesù.
Allora ebbe inizio la trasformazione del mondo, una capacità che il Vangelo conserva per intero, come è evidente dalla pertinenza dei richiami di papa Francesco nelle molteplici contraddizioni o crisi del mondo attuale. Quei richiami o appelli affermano senza ombra di dubbio che il Vangelo è come all’inizio congruente alla storia, all’esigenza di pace, all’economia, alla politica. Al funerale del papa il settore dei ‘capi delle nazioni’ appariva fuori luogo rispetto allo spirito del contesto. E non se ne sono accorti.
Altre volte in questi duemila anni l’energia in opera del Vangelo: con Benedetto ha ‘salvato’ l’Europa, con Francesco ha rinnovato la Chiesa, con i santi noti e non ha risanato, sollevato le sorti umane.
C’è poco da girarci attorno: al credente, secondo la fede e lo Spirito che gli è dato, viene una responsabilità. Con pace. Chi opera è il Risorto.
Mi ami, mi ami, mi vuoi bene? Pietro riconosce che il voler bene è il massimo che può dare: l’eco di un gallo canterino gli ricordava di tenersi basso. Come capiamo bene Pietro! A Gesù gli va bene lo stesso. E gli dice: seguimi. Papa Francesco ogni volta ripeteva: va’ avanti!
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
Strada Durisi, 12 - 30021 Marango di Caorle - VE
0421.88142 pfr.marango@tiscalinet.it