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La fede richiede spazi di cuore

Briciole dalla mensa - 6° Domenica di Pasqua (anno A) - 14 maggio 2023

 

LETTURE

At 8,5-8.14-17   Sal 65   1Pt 3,15-18   Gv 14,15-21

 

COMMENTO

Nel brano evangelico, ben sette volte Gesù parla dell'essere l'uno nell'altro. Quanta intimità. Anche con Dio, anche con Gesù. Dice ai suoi discepoli che conoscono già lo Spirito, perché Egli dimora presso di voi e sarà in voi. «Io sono nel Padre e voi in me e io in voi». A prima vista potrebbero sembrare eccessivamente intimistiche queste parole di Gesù: un ignorare le fatiche e le angosce dell'umanità, essere al di fuori dei problemi che affliggono la gente ogni giorno.
Qui Gesù richiama un'altra dimora, meno pensata e di cui ci si preoccupa meno. Ci preoccupa di più la dimora esteriore, e noi, giustamente, dovremmo lavorare per una società che permette a tutti di abitare una casa. Ma c'è un'altra dimora, altrettanto importante, tanto che se non c'è questa, la dimora interiore, anche la dimora esteriore perde di calore e di luminosità. Siamo chiamati a pensare all'altro come dimora. Se si è in una casa, anche bella, ma chi vive con te fisicamente è fuori con i suoi pensieri, non ha dimora in te, che vita è? Questo per dire che quando Gesù ci parla di Lui che dimora in noi e di noi che dimoriamo in Lui, non dice cose così astratte, ma cose che si avvicinano molto all'esperienza dell'amore, che è un dimorare uno nell'altro fisicamente e spiritualmente, e l'altro è diventato tua dimora.
L'amore è un'esperienza per la quale l'altro, l'amato, diventa quasi parte di te, così che è come se fosse scritto nel tuo cuore, per sempre (cfr. Ct 8,6-7).

 

Gesù parla di una dimora in Lui e di un suo dimorare in noi. E così ci dice che la fede non è semplicemente qualcosa di razionalistico, non è semplicemente un fatto di testa, ma anche di cuore e chiede spazi, anche spazi di cuore, gli spazi della relazione.
È bellissimo l'invito che apre il brano della seconda Lettura: «Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori». Forse si è un po' ristretta l'adorazione di Dio alle sole chiese, e abbiamo perso l'insegnamento ad adorare Dio nei nostri cuori. Invece è proprio nel silenzio del cuore che il Signore, la sua Parola, prende dimora in noi. Si tratta di sentire che questa relazione con il Signore chiede tempo, ha bisogno di essere alimentata, come ogni altra vera relazione.

 

È vero che le parole di Gesù sulla dimora interiore potrebbero essere fraintese in senso intimistico. Ma se le leggiamo nel loro contesto, ci accorgiamo che Gesù subito le colloca nell'orizzonte concretissimo dell’accogliere e osservare i suoi comandamenti, in primis il comandamento dell'amore fraterno. «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questo è colui che mi ama». I comandamenti devono diventare un fatto di cuore.
In questo senso vale la pena di soffermarsi sul verbo «osservare». Spesso lo si appiattisce nel senso di un'osservanza esteriore. Ma osservare significa anche guardare con attenzione, soffermare lo sguardo, con la voglia di interpretare. I comandi del Signore non sono solo come parole da eseguire, ma da osservare con attenzione, da scrutare.

 

Il dono dello Spirito avviene attraverso la preghiera di Gesù: «Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre». È solo dentro lo spazio della sua preghiera che può avvenire ogni preghiera cristiana. Nella nostra preghiera noi possiamo mettere solo tutta la nostra povertà, e sperare e attendere che la grazia divina trasfiguri la nostra miseria per renderci conformi all'umanità di Cristo. Ma il dono dello Spirito è frutto solo dell'intercessione di Gesù, dentro la quale possiamo trovare accesso a Dio.
Il «paraclito» era colui che parlava al posto di un altro, non solo nel senso della difesa, ma anche nell'accezione che lo rappresentava, ne esprimeva la presenza. Dunque lo Spirito come «Paraclito» possiamo dire che è la «rappresentazione», sta al posto di Gesù. Come Gesù è il Paraclito del Padre, così» così «l'altro Paraclito» è lo Spirito, che rende presente Gesù. È il suo «sostituto», come Gesù lo era del Padre. Ma poi lo Spirito diventa anche nostro «sostituto». Cioè esprime la «rappresentazione» dei cristiani nel mondo: è nello Spirito che avviene il rapporto dei cristiani con la realtà del mondo. È un amore più grande quello che lo Spirito rappresenta. È in Lui che è possibile amare gratuitamente e incondizionatamente. Perché è lo Spirito l'esperienza dell'amore di Dio che noi facciamo in Gesù suo Figlio. L'azione dello Spirito nel credente è quella di creare in lui una sorgente di vita per gli altri, di fare del credente stesso uno spazio di vita per gli altri, capace di generare e dare vita, come lo Spirito ha fatto nella creazione.

 

Alberto Vianello

 

 

 

“Io vivo e voi vivrete”. Perché, gli altri non vivono? Non è che si abbia una chiara idea di cosa vuol dire ‘vivere’. Sappiamo che non ci basta questo vivere che prelude alla morte: è già un non vivere, che me ne faccio? No, non è così, il cuore si rifiuta di starci e fa bene. Tutto, nei Vangeli, parla di una vita ‘in abbondanza’, e Giovanni è quello che ci dà dentro con maggior chiarezza ed insistenza, “perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,3-4).

 

Gli evangelisti si spendono nelle testimonianze della risurrezione di Gesù che vince anche la nostra morte. La fede della Chiesa. In genere ci fermiamo qui, ma qui parte una chiamata per ogni credente a ‘realizzare’ in sé il dono. Che vuol dire rendersi conto, lasciare accadere, uscir di prigione, dalle determinazioni di questo spazio/tempo, dal giudizio sulle cose che determina identità e carattere…
Fa pensare il corpo di Gesù sepolto, livido, freddo, materia inerte che d’improvviso un lampo di luce rianima. La luce è energia come racconta la Sindone. La luce è l’ombra di Dio.
Ora, il vangelo di Giovanni (10, 9) afferma essere questo il destino del credente: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo”. Entrerà ed uscirà: dove? Cosa intendere? Che la prigione che ci costringe a vivere entro le mura di un inizio ed una fine è schiusa e già ora è il dopo, qui è l’aldilà. San Paolo coi Corinti che facevano vecchie storie di divisioni, così sbotta:
Quindi nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio!” (1 Cor 3,21). Stava bene anche: tutto è vostro ‘perché’… Ecco come si può avere idea dei luoghi in cui entrare e da cui uscire e trovare pascolo: vita e morte, presente e futuro…

 

Questa è la nostra chiamata. Dio porti a compimento l’opera sua in noi. (Dalla veglia pasquale) “Nessun vantaggio per noi essere nati, se lui non ci avesse redenti”. E che vantaggio avremmo noi, Signore, se dopo essere stati redenti non compissimo l’opera tua?
E questo non è neppure difficile, almeno ci è chiaro come fare. “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui”. Io sarò in lui.
Il che ci permette di correggere l’idea persistente che il Cristianesimo sia una legge di doveri, un codice da rispettare… e la Messa un ‘precetto’ come pur si dice e si male intende. Per niente: è piuttosto un metodo, una… ‘la’ via per la Vita nella sua verità e pienezza, che travalica il limite asfittico del luogo e del tempo; e della ragione, piccola cosa.

 

Se questo è, poiché questo è rasserenarci è una buona conseguenza. Ma è un peccato fermarsi qui. Chi dà gloria a Dio è colui che è in condizione di rendergli merito: l’uomo ‘vivente’, che percorre questa Via, ascoltando e praticando il suo insegnamento.
Anche qui: se ne parla come di una strada di rinunce, di privazioni. Sciocchezze! Se non si è puliti da questo mondo con le sue chimere non si può, non si può! Non è la scelta fra due valori: è la scelta fra l’essere e il nulla. Il solito Giovanni riporta: “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla”! (6,63).
Scrive san Paolo delle cose che temiamo di perdere o a cui siamo attaccati: “Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura” (Fil 3,8).

 

Valerio Febei e Rita

 

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