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La fede è esperienza di perseveranza e di comunione

Briciole dalla mensa - 5° Domenica di Pasqua (anno B) - 28 aprile 2024

 

LETTURE

At 9,26-31   Sal 21   1Gv 3,18-24   Gv 15,1-8

 

COMMENTO

 

Gesù, definendosi come la «vite vera», rivela come per Lui sia essenziale, da una parte, la relazione con il Padre (l'agricoltore della vite) e, dall'altra, con i discepoli (i tralci della vite).
Gesù si sente riconosciuto e valorizzato dal Padre, come un figlio e un padre di questa terra vivono una relazione nella quale è essenziale, per la crescita del primo, che il secondo lo incoraggi positivamente, lo sostenga delle difficoltà, lo aiuti a scoprire e a mettere in opera i suoi talenti. Fa parte dell'educare il proprio figlio sia il rimprovero per le mancanze che il riconoscimento per l'impegno e le capacità. Così si crea una relazione sana, nella quale il figlio si riconosce nell'essersi ricevuto.

 

Gesù applica questo alla realtà del rapporto dei discepoli con Lui: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla». Infatti Gesù aveva dichiarato la medesima realtà nella sua relazione con il Padre: «Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre» (Gv 5,19); «Da me, io non posso fare nulla» (Gv 5,30). Significa che Gesù trova se stesso interamente nella relazione con suo Padre. Così il Figlio può rivelare il Padre, perché non fa nulla da se stesso: privato di sé per ricevere tutto dal Padre. E possiamo dire che è proprio questo «nulla» che ci rende simili a Gesù: non avere nulla di nostro di cui vantarsi autonomamente, ed essere così disponibili all'azione di Dio in noi, costituisce la nostra libertà e la nostra forza.

 

Dunque Gesù non riesce a pensarsi senza il Padre, vivendo con Lui un'esistenza umana in piena comunione con il divino. Ma, senza soluzione di continuità, trasferisce tale relazione al rapporto che Lui ha con i suoi discepoli. Infatti le parole di Gesù sembrano dare l'impressione di non riuscire a precisare dove finisca uno e inizino gli altri, così da essere inscindibili: dal Padre al Figlio, dal Figlio agli uomini, come l'agricoltore che lavora la vigna potando i tralci. Lavorando l'uomo, il Padre cura il Figlio.

 

Come è essenziale al tralcio rimanere attaccato alla vite, così è essenziale al discepolo «rimanere» in Cristo per portare frutto. Nel Vangelo di Giovanni, il «rimanere» non è un accomodamento passivo in una condizione nella quale ci si trova, ma vuole indicare una condizione dinamica, tipica di un rapporto maturo di fede e di amore. Sin dall'inizio del Vangelo, la sequela di Gesù si è caratterizzata come un «rimanere» nell'amore di Cristo. Nella Bibbia, l'amore non è espresso da un fuoco che brucia ma non dura. Il vero amore è dato da una relazione che diviene storia, quando si perdura, appunto si «rimane». Dobbiamo riconoscere la storia d'amore di Dio con noi, per poter sviluppare la nostra capacità di amare in modo adulto e maturo.
Perciò il «rimanere» in Cristo e nel suo amore fonda il nostro impegno a «rimanere» nella relazione di fraternità con le altre persone. Così l'esperienza di fede è esperienza di perseveranza e di comunione. È esperienza di vita interiore e di dimensione spirituale. Senza questa esperienza di comunione personale e interiore con il Signore, la vita dei cristiani nella Chiesa si riduce a scena, a ipocrisia. Senza questo «rimanere» nel Signore non potremo passare dall’«io» autoreferenziale al «noi» della dimensione comunitaria, carta d'identità del credente.
Ed è proprio quello che manca alla Chiesa di oggi, che si lascia sempre più contaminare dalla malattia contemporanea della dittatura dell’«io», nell'incapacità di sviluppare dinamiche di relazioni fraterne nelle diverse realtà ecclesiali, con l’affermarsi di un «io» che diventa rapporto di forza con l'altro, invece che di servizio.

 

Nell'immagine della vite, cinque volte Gesù usa l'espressione «portare frutto», sempre riferita ai tralci, ovvero ai veri discepoli, che rimangono in Lui. Pur venendo tutto dal Padre attraverso il Figlio, e solo per suo dono gratuito, tuttavia Gesù non dice neanche una volta che è l'agricoltore che produce frutto, e nemmeno la vite. Sembra che a fruttare sia il tralcio, e non solo perché i grappoli sono attaccati ad esso. Tutto ciò che il Signore compie è perché l'uomo porti frutto. Dio non ricerca gloria per sé e Gesù non si sente realizzato quando lo riconoscono e lo onorano. Tutta la loro passione è per l'uomo: che non sia un tralcio secco, che non porta frutto. Dio è onorato quando l'uomo produce i frutti dello Spirito Santo: «Amore, gioia, pace, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Se nel mondo ci fossero oggi questi frutti potrebbe realizzarsi il regno di Dio: il suo progetto di umanizzare l'uomo e il mondo. Questo il luogo dove regna Dio.

 

Sembra che Giovanni "giochi" con il termine che significa «potare» al v.1 e che al v.2 usa nell'aggettivo tradotto con «puro». Essere puro non significa, dunque, essere privo di qualsiasi macchia o contaminazione: in questo contesto, significa avere accettato le potature. La vita riserva talvolta dei tagli anche dolorosi alla nostra umanità. Ma se si lascia tutto alla spontaneità della nostra esistenza, c'è il rischio della dispersione in tante cose. Se pure il taglio costa, tuttavia esso permette alla linfa vitale di concentrarsi su pochi tralci, così da portare più frutto. Custodiamo fissi i valori e gli elementi essenziali della vita: le relazioni di amore e di amicizia, i valori sociali ed ecologici, e non copriamo gli spazi da riservare a questi con cose che sono secondarie: questo vuol dire essere puri.

 

Alberto Vianello

 

 

 

Senza di me non potete far nulla. Nulla di cosa?
Oh, al contrario: molte cose facciamo senza di te: compriamo, vendiamo, entriamo in politica, conviviamo (sta per ‘prendiamo moglie e marito’) scaliamo posizioni, andiamo in vacanza, ci armiamo per la guerra… Non c’è mica bisogno di te!
Cos’è allora quel che potremmo fare se stessimo con Lui? Quel che fa Lui, mi vien da dire: amare, pazientare, ridare speranza, curare e guarire, sollevare chi è giù, beneficare, superare il limite, dare la vita… Tutte cose documentate da testimoni, discepoli ed evangelisti e non ci torniamo più su.

 

Semplice, chi non vorrebbe impostare la vita su questa linea? A quanto pare pochi e sempre meno. Questo mondo di tensioni e contrasti, tanto per intenderci, che sta stretto a tutti, tutti diciamo che è l’unica realtà e nel dirlo ‘vogliamo’ che questa sia la sola realtà. Questa ‘realtà’, è bene precisare, è una rappresentazione della mente, dei nostri occhi, dei convincimenti, interessi, giudizi, luoghi comuni, ragionamenti… ma ha la consistenza della nostra volontà egoica. Si sa che già stando a questi fattori la ‘realtà’ non è più univoca, c’è da lottare per mettersi d’accordo mentre la ‘realtà’ dell’uno cerca di prevalere su quella di altri. Ma purché sia lo spazio esistenziale in potere della nostra psiche, va bene.

 

Non va bene, invece. Anche la scienza della fisica subatomica, o fisica delle particelle, afferma cose interessanti per noi che siamo immersi nelle tre dimensioni ‘materiali’ e che altro?! Mentre la materia, dicono quegli esperti, sconfina, in ultima analisi si tramuta in ‘onda’, energia vibrante. Theilard de Chardin indagava il mistero della materia in ambito ecclesiale, morto in odore di eresia panteistica. Che c’entra? C’entra che Gesù faceva quel che diceva: cose concrete. La sua parola, lo Spirito, agiva sulla materia. Noi siamo propensi a ritenere i segni che Egli compiva come fatti magici, metafore. La stessa risurrezione, sì, ma che vorrà dire e poi come ci riguarda? Ricordiamo che anche Pietro e gli altri, dopo alcuni incontri col Risorto, tornarono all’attività di pescatori, ripresero la loro vita! E la Pentecoste, cioè il dono dei carismi, effetto e compimento della risurrezione, quanto è certezza di fede e di esperienza nella pratica ecclesiale di oggi? Perché è ‘dopo’ l’effusione dello Spirito di Cristo, che si è già dato in corpo e sangue, che i discepoli escono dal chiuso e dalla paura e vanno euforici ad annunciare… Ed è proprio per l’annuncio di Cristo che viene dato lo Spirito, mica per fare giochetti! Ah, qualcuno ci aveva provato, Simon mago, ma gli andò buca (cfr. At 8,9ss).
Sarà una sfida, per me lo è, ma la parola di Gesù o va presa sul serio o non va presa affatto. Che ce ne facciamo di una parola creduta solo a fini devozionali o ‘spirituali’ o per osservanza del precetto?

 

Gesù rivela una realtà ‘maggiorata’ per usare un termine corrente, e tale è per chi fa Pasqua, ‘passando’ attraverso di Lui, la porta, così che entra ed esce trovando pascolo, ripulito da quel di cui la coscienza rimprovera, come dice san Giovanni. Stessa cosa a Paolo, prima di essere san Paolo, che era un tipo mica tanto tranquillo, zelante e colto fariseo con quel suo scellerato programma verso i credenti, eppure cambiato in quattro e quattr’otto. E tale è la realtà di Cristo per chi gli rimane unito come il tralcio alla vite. Se le sue parole rimangono in noi ne siamo la continuazione, facciamo quel che Lui farebbe: bei grappoli di uva e il Padre ne sarebbe compiaciuto tanto da concederci tutto quel che gli chiediamo. Tutto?
Dunque, fammi pensare, io avrei da chiedergli… Giovanni, che ne sa, incoraggia: siccome “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”, tu occupati di essere nella verità davanti a Lui e prepara la lista.

 

Valerio Febei e Rita

 

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