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La preghiera di Gesù, la rappresentazione dello Spirito, la fecondità interiore della Parola

Briciole dalla mensa - Domenica di Pentecoste (anno C) - 8 giugno 2025

 

LETTURE

At 2,1-11   Sal 103   Rm 8,8-17   Gv 14,15-16.23-26

 

COMMENTO

 

«Se mi amate»: tutto dipende da questo. Gesù ha percepito nei suoi discepoli la qualità dell'amore con cui il Padre li ama; e chiede loro di vivere di quell'amore divino. È l'amore che garantisce la verità della spiritualità cristiana.
Poi Gesù assicura che pregherà, allo scopo di ottenere per loro il dono dello Spirito Santo. Quindi l'intercessione di Gesù per gli uomini viene a rafforzare in noi la preghiera che - sempre e innanzitutto - è richiesta dello Spirito. «Il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono» (Lc 11,13), promette Gesù. Il dono dello Spirito è la «cosa buona» per eccellenza, ciò che non può mancare per una vita di fede, altrimenti essa sarebbe solo miseramente velleitaria.

 

Nei versetti precedenti al brano evangelico della liturgia di Pentecoste, Gesù aveva affermato l'altra condizione essenziale per la preghiera: chiedere «nel suo nome» (14,13). Solo così la preghiera viene esaudita. Proprio per questo, Gesù chiama lo Spirito «l'altro Paraclito»: è detto così in riferimento allo stesso Cristo («Abbiamo un Paraclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto, 1Gv 2,1). Il «paraclito» era l'avvocato difensore. Secondo gli usi forensi del tempo, era colui che parlava al posto dell'accusato, non solo nel senso della difesa, ma nel senso che lo rappresentava, cioè ne esprimeva la presenza. Ne è la «rappresentazione», sta al posto di lui.
Quindi Gesù è il Paraclito del Padre, perché chi vede Lui vede il Padre. E lo Spirito è «l'altro Paraclito» perché rende presente Gesù: è il «sostituto» di Gesù, come Gesù lo è del Padre. Ma lo Spirito che ci è donato fa sì che Lui sia anche il nostro «sostituto»: lo Spirito esprime la «rappresentazione» dei cristiani nel mondo. Quindi il nostro rapporto con il mondo è un rapporto nello Spirito, cioè nell'amore.

 

Proprio per questo, Gesù promette che, come Lui è stato accanto ai suoi nel tempo della sua vita sulla terra, ora lo Spirito Paraclito sarà «sempre» con i discepoli. Anzi, Gesù garantisce che sarà «in» loro (14,17): lo Spirito rende interiore la presenza di Cristo negli uomini.

 

La presenza dello Spirito permette, poi, al cristiano di affrontare la lotta spirituale. I Padri ci insegnano, a cominciare da Antonio il Grande, che la fede è sempre minacciata nel mondo: è solo la lotta spirituale che ci permette di custodirla. «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7). Vivere la fede è una lotta continua: sempre tentati di rinunciare, di sentirsi inadeguati.
Giuseppe Dossetti affermava che la caratteristica della fede è un termine che troviamo spesso nel NT: pleroforìa, che significa letteralmente «piena convinzione» (Col 4,11). «È la fede così convinta che può anche essere che contemporaneamente cammini insieme a grandissima oscurità e prove di fede. Non è tanto credere che dobbiamo perdonare i nemici: può essere difficile farlo, ma lo crediamo, ne siamo convinti. Ma è difficile credere che Cristo è veramente Figlio di Dio, che per il nostro amore e per la nostra salvezza è nato come uomo da Maria Vergine. Questo è difficile da credere, è la prova della fede».

 

Nelle parole di addio che Gesù rivolge ai suoi discepoli, Egli lascia come suo «testamento» la insistita raccomandazione di osservare la sua Parola. Ma non basta solo un’osservanza formale. Il ruolo dello Spirito è proprio quello di portare il credente a nutrirsi della Parola, di assimilarla come si fa con il cibo, perché diventi fonte di vita.
Dunque lo Spirito permette di interiorizzare le parole e l'insegnamento di Gesù, quindi la sua stessa vita e presenza. In questa maniera la vita di fede è reale, perché realtà nella quale si fa presente il Signore: grazie alla dimensione interiore dell'azione dello Spirito. Senza una vera vita interiore, come assimilazione della Parola per l'opera dello Spirito, la stessa fede si riduce a conoscenza esteriore, la speranza è lontana utopia, e la carità puro attivismo.

 

Lo Spirito opera lo sviluppo di una dimensione prettamente umana dell'interiorità: la capacità di dialogo interiore, di riflessione, di emozioni vissute in se stessi, di capacità di mettersi in discussione e di analizzarsi.
Non è spiritualismo, cioè vita interiore staccata dalle vicende e dai drammi del mondo. È una vita (spirituale) che nasce e si rigenera dall'ascolto della parola di Dio e dall'accoglienza del dono dello Spirito che feconda l'ascolto della Parola. Allora si diventa persone capaci di vero amore, amando il Signore e i fratelli. Presenza autentica del cristiano dentro la storia e per il mondo.

 

Alberto Vianello

 

 

 

Immagino che lo Spirito Santo sia il modo di essere tra noi di Gesù, uguale al Padre. Mica una controfigura, un pezzo grosso insomma. Il soggetto che anima l’assenso all’opera di Dio. L’altro che è in me più vero di me stesso, e suggerisce quel che è giusto e coerente all’amicizia, alla carità. Non sempre se ne sente la voce coperta dai molti pensieri contrari che tacitano l’ospite discreto, rispettoso.

 

Pasqua, Ascensione e Pentecoste procedono l’una dall’altra: Gesù risorto appare per quaranta giorni, poi sale in cielo, scompare ai nostri occhi. L’Ascensione ci insegna che in qualche misura anche noi siamo sollevati con Cristo poiché ci nutriamo di Lui che ha la nostra natura. Senza contare che egli assicura: “Là dove sarò io sarete anche voi”. È sempre Vangelo di Giovanni.
“È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito…”. È tempo di camminare ‘da soli’, come il bambino che finora ha camminato tenuto per mano dalla mamma. Poi arriva il tempo di lasciarlo cosicché impari a confidare in sé. Immaginiamo l’ansia di quel momento e l’adrenalina, poi via! Così Gesù fa con noi, perché diventiamo adulti, usando responsabilità e decisione. Senza libertà non c’è amore.

 

E tuttavia dice: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E come i bambini che non vedono la mamma da troppo tempo, ci lamentiamo della sua assenza e i Salmi ci prestano stati d’animo e preghiere. Isaia usa un paradosso: “Può una donna dimenticarsi del suo bambino?... Anche se queste donne si dimenticassero io invece non ti dimenticherò mai”.
Così la liturgia ricapitola e rinomina il tempo che di anno in anno procede verso il suo compimento. Altrimenti il tempo ha il senso delle alterne vicende, delle ricorrenze della storia e delle sue tragedie. Oppure è vuoto, come cantava Tenco: “Un giorno dopo l’altro la vita se ne va…”. Montale in una poesia alla moglie scriveva: “Il mio (viaggio) dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”.

 

In pratica un problema c’è. Sembra di essere davanti a due sistemi, due ‘realtà’: quella costituita dalle logiche umane e quella rivelata da Gesù. La prima è per noi preminente.
Nel piccolo, dove ciascuno è arbitro del proprio giudizio, si considera ‘reale’ quel che viene alla percezione. La rivelazione è un ambito ‘religioso’, altro dalle regole razionali e mal si concilia con quel che appare più concreto, evidente alla vista. Eppure Pasqua, Ascensione, Pentecoste sono ‘fatti’ fra loro connessi, significativi per tutti non solo per chi ‘crede’. Come è che non li vediamo così che abbiano senso trasformante?
Nella realtà rivelata anche le leggi della fisica sono sospese e a indirizzare in modo non meno concreto la vita singola e le relazioni, la stessa economia valgono le regole diverse della carità, della fraternità, della fede, dell’amore che condivide, guarisce, salva.
Sono due sistemi a confronto. Viviamo immersi nel primo a fatica, come è faticoso liberarsi dalla ‘carne’, dal principio egoico, dai pensieri vani ed inquinanti che delle cose colgono la superficie.

 

Di fronte alla realtà rivelata da Cristo che insegna la nuova ‘legge’, predica la vita che non muore, si lascia mettere in croce, risorge “perché non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere”,  sale in cielo e manda lo Spirito ai discepoli d’ora come di allora, a poco a poco scompare l’imponenza del nostro modo di vedere le cose, viene meno l’assertività dei nostri e dei pensieri collettivi e si vede chiaramente che la realtà di Cristo ha maggior coerenza al bisogno che gli uomini riconoscono come essenziale e irrinunciabile: l’amore che salva. Non è un sentimento ma il senso. Se rimaniamo nel suo amore, facendo quel che a Lui piace, il suo destino ci riguarda, “affinché dove sono io siate anche voi”.
Gesù se ne è andato ma rimane con noi come Spirito, senza di che non potremmo essere giusti. Trattandosi di Lui, l’amato riama l’amante di quel suo stesso amore e non c’è più distinzione. L’amore rende uguali.

 

Valerio Febei e Rita

 

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