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La fede che salva i non salvabili

Briciole dalla mensa - 28° Domenica T.O. (anno C) - 9 ottobre 2022

 

LETTURE

2Re 5,14-17   Sal 97   2Tm 2,8-13   Lc 17,11-19

 

COMMENTO

 

Al centro dell'attenzione della prima e della terza Lettura ci sono due stranieri, quindi due uomini considerati senza Dio, che sanno però distinguersi dai "credenti" ringraziando il Signore per il suo dono. Un ringraziamento che non è una buona educazione e un doveroso riconoscimento, ma l’atto di fede che sa celebrare Dio per i suoi doni, più che dibattersi nelle richieste di perdono per i propri peccati, come spesso sono stati educati i "bravi credenti".
Naaman, il grande generale comandante dell'esercito di Aram, opera una duplice conversione. Innanzitutto si ravvede dalla sua sorpresa e dal suo rifiuto davanti al profeta di Dio che lo aveva invitato, per essere guarito, al gesto più semplice e meno religioso (andare a lavarsi al Giordano); mentre egli si aspettava un segno grande, come grande era la sua malattia, la lebbra.
Di fronte le nostre debolezze/malattie insuperabili, pensiamo che Dio vi possa intervenire solo con segni eccezionali, e per questo disperiamo del suo aiuto. Invece, come la Cananea, dobbiamo credere alla sazietà delle briciole. Come per Paolo, la Grazia si manifesta nella debolezza, non togliendola. Una mano che ti accarezza, una voce che ti comunica calore, un orecchio che, ascoltandoti, ti accoglie costituiscono il nostro Giordano, che ci fa vivere la cura del Signore attraverso le nostre povertà, senza attendere miracolismi.

 

L'altra conversione di Naaman è la rinuncia alla ricompensa che egli voleva dare, ma che il profeta Eliseo rifiuta categoricamente. È di chi è ricco e potente non dovere nulla agli altri, perché minerebbe la propria pretesa grandezza, l'immagine di uomo che non deve niente a nessuno. Dare un premio per qualcosa che si è ricevuto vuol dire proprio pretendere di sdebitarsi, e non dipendere da nessuno. La gratitudine è difficile, perché richiede la fine del proprio narcisismo, per riconoscersi graziati.
Chi si fa mediatore della Grazia come il profeta, deve invece affermare l'assoluta gratuità del dono divino, e guardarsi da quei meccanismi di offerte accettate che fanno credere alla gente di "pagare" in qualche modo la Grazia. È una logica dominante nella mondanità, ma quando si entra in chiesa, si deve entrare, invece, nella dinamica dell'assoluta gratuità. Eliseo, rifiutando l'offerta, "scompare" davanti al Signore, vero autore del beneficio, e Naaman rivolge a Dio il suo ringraziamento. Infatti, davanti al diniego del profeta, rinuncia a sdebitarsi e decide di portarsi a casa un po' di terra di Israele, dove poter venerare il Signore, Dio di Israele, che lo ha guarito.
Dobbiamo educarci alla grammatica del ringraziamento. Arrenderci al dono gratuito di Dio, il quale non vuole assolutamente nulla in cambio. Ci abbeveriamo al pozzo della sua Grazia e continuiamo per la strada della nostra vita, soltanto con cuore grato, non per Lui, ma per noi stessi.

 

La difficoltà del ringraziare appare anche nel brano del Vangelo: dieci lebbrosi guariti, ma uno solo torna indietro a ringraziare Gesù, autore della guarigione, per di più è uno «straniero». Gesù non li guarisce subito, ma li invia a «presentarsi ai sacerdoti», i quali svolgevano la funzione di verificare l'effettiva guarigione, secondo la Legge. Gesù li manda al vero e unico valore che la Legge religiosa dovrebbe avere, ieri come oggi: certificare l'opera della Grazia negli uomini. Tuttora, invece, la Legge viene usata come strumento di esclusione per chi "non è in regola". La Legge sfigura la Chiesa in una elite arrogante, separata ed escludente. Nella Chiesa, quante porte sbattiamo in faccia alle donne e agli uomini delle vite accanto e diverse! Ogni persona umana, in quanto tale, è alla ricerca di un assoluto. Noi, come credenti, abbiamo ricevuto in grazia di sperimentarlo, in qualche modo, attraverso la fede. Potremmo condividere la stessa esperienza con gli altri, ma ci neghiamo la relazione con loro, perché la Legge li esclude per la loro etica. Fossimo meno "santi" e più disposti alla condivisione!

 

Nonostante il rinvio di Gesù al ruolo positivo della Legge, uno solo dei lebbrosi guariti lungo la via, sente il bisogno di far precedere alla Legge il ringraziamento al Signore. Per lui vale di più il «grazie» a Gesù, quindi il «rendere gloria a Dio», del reintegro religioso e sociale garantito dalla Legge. Siamo tutti persone guarite dalla propria marginalizzazione causata dalla fragilità della nostra carne (la lebbra) e naturalmente chiamate a ringraziare Dio per il dono, e a fare del ringraziamento il motivo bello della propria vita.
Tanto da andare contro anche il comando di Gesù di recarsi dai sacerdoti, un comando poi che nella sua esecuzione aveva visto la guarigione miracolosa. Anche se Gesù ci dice di «andare», il ringraziamento ci spinge a tornare a stare la sua presenza, che è l'unica cosa che conta. Il «tornare» del Samaritano è proprio il verbo della conversione, che dunque non consiste in un miglioramento comportamentale o in una crescita spirituale, ma nel continuo volgersi da qualsiasi opera religiosa e pia al ringraziamento e alla lode al Signore. Come bimbi sempre incantati e attratti dalla fonte del dono.

 

«Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?» Paradosso che Gesù evidenzia: coloro che non conoscono Dio (gli stranieri), sono portati spontaneamente ad andare a Lui quando sperimentano la sua Grazia, a differenza di coloro che religiosamente gli appartengono, ma che si limitano ad ascoltare la parola invece che tornare a Colui che la pronuncia. Davvero i Vangeli di queste domeniche insistono a presentarci dei personaggi estranei, lontani, che con la loro fede sconfinano la religione. Un Samaritano ai piedi di Gesù per ringraziarlo ha una fede che lo salva, dice il Signore.

 

Alberto Vianello

 

 

La fede viene dall’ascolto. Il Vangelo racconta fatti che pur avendo valore per sé, chiedono attenzione perché abbiano valore per ‘noi’, chiedono una preparazione all’ascolto, un cuore che non indugia. Perché succede che fra noi che siamo qui e il Vangelo c’è il deposito di secoli, l’idea stessa della distanza ci distanzia da quegli eventi: la lebbra non è più un problema, gli indemoniati si curano dallo psichiatra… Seppure non mettiamo in dubbio i miracoli narrati o gli insegnamenti che i discepoli ricevono, pure quei fatti, quei luoghi ci arrivano ‘depotenziati’, ovattati. Assistiamo non alla scena ma alla rappresentazione che la mente ne fa, ovviamente soggetta a distorsioni. Tra ora ed allora la distanza ha creato un effetto flou, sfumato e le cose narrate son divenute come di sogno…

Eppure i miracoli ci sono ancora, ne è piena la vita dei santi. Padre Pio, per esempio, continua ad essere presente e vi sono molti giusti che operano il bene, danno la vita imitando Gesù! Noi non andiamo in cerca di questi eventi, capaci certo di emozionarci ma non bastanti a generare la fede che proviene dalla congiunzione tra il dono della Grazia e un atto libero della nostra coscienza.

Gesù non guarì tutti i malati di allora, ma quanti malati nel corpo e nella psiche ha incontrato, segni del Regno per i presenti e gli assenti. “Ma il Figlio dell’uomo quando tornerà troverà la fede sulla terra?”. Lo dice a noi. E i miracoli del resto non sono la salvezza, la guarigione sì, ma c’è dell’altro. Infatti i lebbrosi ottennero tutti la guarigione, ma uno solo la salvezza. Ma cos’è la salvezza? Che ha fatto il samaritano, il senza Dio, di speciale per averla? Niente: ha fatto la cosa più naturale, semplice, istintiva e infantile al mondo: vedendosi guarito è tornato esultante di gioia per fare festa e ringraziare Gesù.

Tutti credettero alla sua parola: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. Partirono da lebbrosi e ‘per strada’ furono purificati. Noi siamo figli del ‘tutto e subito’, stiamo attenti: la soluzione del problema che ci affligge avviene durante il cammino. Il cammino è esso stesso parte della guarigione.

I nove stanno alla regola, vanno diretti dai sacerdoti, non tornano a far festa, non c’è la gioia che rompe gli indugi, che non sta alle regole, incontenibile. È l’esultanza irrefrenabile del bambino, libero e signore del mondo! Un certo modo di intendere la religione ingessa, frena l’entusiasmo, nasconde la vita sotto il moggio.
Il samaritano si vede guarito, rinato ed esulta con Colui che lo ha guarito. Questa la religione che il Vangelo ci indica.

C’è una parte della Messa che di norma scivola via senza peso, in poco spazio: il ringraziamento. Dopo la comunione il tempo di purificare, benedizione, la Messa è finita, andate in pace.

Sarà il caso di dare il giusto valore e lo spazio necessario all’atto più intimo e personale della celebrazione: il riconoscimento pieno di gratitudine verso un così grande dono. Se la consacrazione e la comunione sono la parte a cui tende la liturgia, il momento successivo è il tempo dato a noi, per il nostro assenso, per saperci uno con Cristo. Perché è lì che noi ‘agiamo grazie’, facciamo eucarestia. Spesso quel tempo a conclusione della liturgia è un’appendice frettolosa. “Tutto è compiuto” dice Gesù nella consacrazione. Tutto si compie in noi nel ringraziamento. Occorre tempo per scendere dentro sé e abitarci con Cristo che ci abita. Occorre tempo per tacitare i pensieri vaganti perché con tutta la mente e tutto il cuore si resti alla presenza dell’Amore, gustando la benevolenza che copre ogni pena, ogni giudizio: quel Gesù che il Vangelo racconta è qui, ora, e mi ama in me. Più di questo non c’è al mondo. “E se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore non ne avrebbe che dispregio” (Ct 8,7).

Mah, si dice, questa è roba di monaci. E allora? Anche di samaritani lebbrosi.

 

Valerio Febei e Rita

 

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