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La debolezza umana come forza per vincere le tentazioni

Briciole dalla mensa - 1° Domenica di Quaresima (anno A) - 26 febbraio 2023

 

LETTURE

Gen 2,7-9; 3,1-7   Sal 50   Rm 5,12-19   Mt 4,1-11

 

COMMENTO

 

«Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo»: le tentazioni partono da qui, dall'azione dello Spirito, che mette Gesù dinanzi alla possibilità del male che attraversa il cuore dell'uomo. Dio non tenta mai nessuno al male (cfr. Gc 1,13), ma la vita di Dio presente in noi (lo Spirito Santo) mette l'uomo anche nella condizione di decidersi per il male, perché l'uomo possa scegliere il bene affidandosi a Dio nella prova. La relazione di Dio con noi non è ideale, ma concreta e storica: l'uomo, da solo, non può fare il bene, perché è "naturalmente" influenzato dal male (prima Lettura). Ma il bene si produce in lui se si apre alla grazia.
Gesù è tentato perché è un uomo come noi, e perché, così, può capirci e intercedere per noi. «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: Cristo è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Sono state quelle prove nel deserto che lo hanno reso sacerdote per noi presso il Padre, fino alla prova estrema, quella sulla croce: abbandonarsi al Padre sentendosi abbandonato da Lui.

 

Gesù è tentato per 40 giorni, come già Israele per quarant'anni nel deserto. In effetti, Gesù ripercorre le prove del popolo di Dio. La prima tentazione - trasformare le pietre in pane - richiama il lamento del popolo nel deserto, per il quale Dio dona la manna e le quaglie: è la tentazione del miracolistico, oppure dell'economico, cioè di pensare che anche nel campo religioso vale ciò che produce un risultato.
La seconda tentazione - quella di buttarsi giù dal tempio perché gli angeli lo sorreggano - corrisponde alla prova di Massa e Meriba, l'acqua dalla roccia. È la tentazione del sacrale, oppure del religioso: pensare la via della fede "piegata" a una realizzazione personale e egoistica.
Il terzo momento è la visione di tutti i regni e la possibilità di averne il potere: è la tentazione del vitello d'oro, che il popolo si è costruito mentre Mosé sul monte riceveva da Dio la Legge. È la prova del potere o della politica, ridotta a strumento per una grandezza propria, invece che dedita al bene comune.

 

Possiamo leggere le tentazioni anche in chiave esistenziale. La prima riproduce una possibile nostra condizione nella quale facciamo esperienza del deserto, della durezza delle pietre, di una realtà che appare quindi sterile, incapace di nutrire la vita. Gesù risponde con la Scrittura: «Non di solo pane vivrà l'uomo». Si riconosce semplicemente uomo: sperimentandone i limiti. Gesù non vive il limite della propria umanità come uno svantaggio, come una sconfitta, ma ne evidenzia la straordinaria capacità: la possibilità di ascoltare la parola di Dio, «l'uomo vivrà di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
Dobbiamo essere come i bambini, pronti, disponibili, fiduciosi verso tutto ciò che colgono nelle parole dei loro genitori; nutriti di parole che sono innanzitutto di tenerezza e di sapienza della vita: quelle che fanno crescere, come il pane.

 

La seconda tentazione si verifica quando si va oltre le convinzioni idealizzate del religioso, cioè quando le immagini gratificanti del divino crollano, e l'uomo non trova più in sé e nella sua vita alcun spazio per Dio. In questa prova, il diavolo stesso cita la Scrittura, ma omette una frase del salmo che pronuncia: «Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo di custodirti in tutte le tue vie». Manca dunque la frase che afferma la realtà di fede che Dio custodisce nell'esistenza ordinaria dell'uomo: Dio non lo troviamo una fiducia miracolistica, nella quale possiamo attenderci tutto (ovvero lo straordinario).
Gesù troverà Dio quando vivrà quel "ordinario" più umano che è la morte, proprio laddove non c'è Dio, perché Gesù non si aggrapperà al miracolistico, che è soccombere alla prova mettendo Dio alla prova.

 

La terza tentazione è molto chiara e colorita - lo spettacolo dall'alto di «tutti i regni del mondo e la loro gloria» - nel mostrarci le illusioni del potere, della ricchezza, della gloria. Quando questi miti umani cadono, allora si fa strada la disillusione e il risentimento. La prova era consistita nel considerare la terra non più come dono di Dio, ma come conquista delle proprie mani. Gesù reagisce consegnandosi all'adorazione dell'unico vero Assoluto, che è Dio. È Lui che governa la storia, non i regni terreni. Il suo potere si mette a servizio dell'uomo per realizzare il disegno del suo Regno eterno, ovvero il progetto umanizzante dell'uomo. Quando l'uomo si comporta da uomo - cioè da fratello e non da Caino - con gli altri uomini si realizza il suo potere e la sua gloria sulla terra: che sono il suo amore.

 

In definitiva, Gesù affronta le tentazioni e le supera non servendosi di poteri straordinari, ma custodendo limpidamente la sua umanità. Cioè Gesù non ha voluto servirsi del suo essere Dio per avere successo, consenso e realizzazione, ma è rimasto dentro il limite umano, vivendone tutte le conseguenze. E, dall'altra parte, non è nemmeno sceso a livello del diavolo, come questo lo tentava, che corrisponde alla logica di prostrarsi a un potere con lo scopo di averne per sé.
Perciò ci insegna il valore e la forza di essere persone umane. Alienarci dalla nostra umanità, facendoci Dio o scendendo a patti con il diavolo, non ci permette di superare le prove, come quando viviamo la nostra umanità aperta alla grazia.

 

Alberto Vianello

 

 

“Il mio peccato mi sta sempre davanti…”. Capita che il peccato continui a mordere e un malposto senso di colpa ci inchiodi ad esso. Se è giusta l’ammissione delle proprie colpe ancor più è necessaria la fiducia nel perdono. Ne ‘La passione’ di Gibson, durante l’interminabile salita al Calvario, Gesù, a terra sotto i colpi, a sua madre che è riuscita ad avvicinarlo, dice. “Io faccio nuove tutte le cose”. Quello era il prezzo e questo il guadagno. L’espressione è tratta dall’Apocalisse (21, 5). A prima vista può apparire imbarazzante che si possa ‘lucrare’ sollievo da una sofferenza così grande. Le vie dell’orgoglio sono anch’esse infinite. No, non si può accettare questo ‘strumento’ cruento per risolvere i propri problemi, liberarsi dai pesi.

C’è una parola che Davide dice nel salmo e che sembra azzardata: “Contro di te, contro te solo ho peccato…”. E Urìa l’Ittita? Gli ha sottratto la moglie e per evitare lo scandalo palese di lei incinta procura che il marito venga ucciso. Non è certo per schermirsi che Davide si accusa davanti a Dio, come per attenuare il fattaccio così che Uria e l’adulterio passino in secondo piano. In quella frase si legge la profondità dell’autoanalisi: anche Urìa fa capo a Dio. Viene il momento in cui la coscienza, finora taciuta dalla seduzione, lo raggiunge: il profeta Nathan gli si presenta raccontandogli il caso di un uomo, già provvisto di greggi e di beni, che si impossessa dell’unica pecorella di un povero. Poi chiede al re: “Tu che ne dici?”. “Ah, risponde Davide con decisione, egli merita la morte!”. “Tu sei quell’uomo!”. Allora gli si aprono gli occhi e Davide ‘conosce di essere nudo’, lo stesso che ad Adamo ed Eva. Leggere chiede di fermarsi sulle parole. Il ‘re’ smette le vesti regali, smette l’identità del ruolo, sta a terra, humus (da cui homo) e per giunta si copre di cenere, segno del nulla. Segno di Quaresima. Davide si rende conto che il suo essere è iniquo: “Nel peccato mi ha concepito mia madre”. Da quella postura scrive il salmo 50. Così la tradizione. Poi segue la preghiera: “Purificami con issopo e sarò mondato. Lavami e sarò più bianco della neve…”.

Ogni uomo porta in sé il peso di un’insufficienza, di un ‘non compimento’ che poi affoga nel lavoro o nelle cose che con quello si procura. Si dice talvolta: l’ansia è lo scotto da pagare nel vivere moderno. Molte cose passano dentro questa convinzione. Non si può essere felici. Forse è così, ma pare una condanna. No, il ritorno della pace è possibile sempre, se no che senso c’è? Certi caratteri, magari più scrupolosi, sono inclini ad associare tale incompletezza alla propria storia, a come sono andare le cose, ai limiti o agli errori. Ma neanche il passato può essere una condanna. Anche l’errore, grave che sia, accade in circostanze propizie che in parte lo spiegano. Ma non tanto da ridurre l’ansia e dare pace. Neppure la rimozione del senso del peccato, anzi! L’incompletezza e peggio l’iniquità radicale di cui parla Davide proviene dalla rimozione del senso del Padre che crea e provvede. È il sottrarsi deliberato dalla sua presenza e dal suo sguardo a motivo delle seduzioni che causano l’inquietudine crescente con il raggiungimento di ciò che seduce. Gesù riprende l’annuncio dell’alleanza  dall’inizio, dalla resistenza agli idoli.
Sarebbe da cambiare il significato comune del termine Quaresima: tempo malinconico di mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Un tempo triste, ‘viola’. Ma va là!

E un tempo in cui la Chiesa ci suggerisce di volgere l’attenzione al cuore della pace: la fiducia nel Padre, tale che vien voglia di camminare sempre sotto il suo sguardo. Il contrario non è punitivo: sappiamo che di là l’ansia torna ad assalirci.
È costato il sacrificio di Cristo. Beh, sì. Non bisogna scandalizzarsi, da radical chic, giudicare la cosa come ‘umana, troppo umana’ (Nietzsche). Ad ognuno costa il proprio peccato e lo espia, eccome! Ricordo un titolo di Pavese: La morte si sconta vivendo. Ma con ciò bisogna sapere che Gesù anche per questo è l’uomo più felice al mondo. E io posso godere che Egli dica: “Io faccio nuove tutte le cose”. Cioè mi rinnova e, dato che la vita non me la do da solo, ‘oggi mi ricrea’. Ogni istante ‘mi ricrea’. E rendo prezioso ogni istante se penso al Signore amandolo. Il tempo di Quaresima è un tempo di felicità segreta, silenziosa, personale, in attesa della festa coi botti.

 

Valerio Febei e Rita

 

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