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La croce e il Crocifisso: l’uomo peccatore e il Dio dell’amore

Briciole dalla mensa - Festa dell'Esaltazione della croce - 14 settembre 2025

 

LETTURE

Nm 21,4-9   Sal 77   Fil 2,6-11   Gv 3,13-17

 

COMMENTO

 

Il racconto del serpente trafitto è sempre stato letto dai cristiani come una prefigurazione del Crocifisso. Ma andiamo con ordine, seguendo la narrazione del libro dei Numeri. Il popolo cammina faticosamente nel deserto, cercando la terra della Promessa, ma con la testa e il cuore sempre rivolti verso l’Egitto. Non sopporta il viaggio e si ribella continuamente contro Mosè ed Aronne. Allora «il Signore mandò tra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero di Israeliti morì». Facciamo una prima osservazione: il morso del serpente è precisamente una puntura velenosa, che talvolta ferisce a morte, come certe nostre parole. Per questo si dice che qualcuno può avere una “lingua di serpente”. La seconda osservazione: seguendo un antico gioco di parole ebraico, che si chiama ghematria, per il quale a ogni lettera corrisponde un numero, la parola ebraica “nachàsh” (serpente), ha lo stesso valore numerico di mashìach (Messia). Gli studiosi dell’ebraismo deducono che “colui che deve venire”, il Messia, è l’anti-serpente, colui che, con la parola della sua bocca, sconfiggerà il serpente, che è menzognero fin dall’inizio (Gn 3,1).

 

Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo peccato contro il Signore e contro di te». Per la prima e unica volta nel cammino del deserto, il popolo confessa il suo peccato. La mormorazione si ripete sempre uguale: la mancanza d’acqua, il disgusto per la manna, la paura di morire nel deserto, ma questa volta il popolo ammette di aver sbagliato: «Abbiamo peccato!» C’è voluto il morso dei serpenti e la morte che mieteva le sue vittime tra il popolo perché ci fosse un inizio di pentimento.
Nei deserti dell’anima, nella notte della civiltà, nelle infinite guerre di sterminio, nei genocidi pianificati da perverse intelligenze, quante migliaia di morti dobbiamo contare ancora perché l’uomo possa dire: «Ho sbagliato, sono colpevole!»?

 

Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta. Chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». In ebraico la parola ‘asta’ si dice ‘nes’ che, a seconda del contesto, può significare “vessillo”, “segno” o anche “miracolo”. Il racconto ci parla di un “segno” che sarà dato dal Signore al suo popolo nel deserto. È il “miracolo” del pentimento. Proprio quella delusione che avvelenava il cuore e conduceva alla morte, per opera di Dio si trasforma in pentimento che guarisce e dà vita. È il miracolo della guarigione.
Un testo del profeta Isaia dirà che un discendente di Davide diventerà «vessillo per i popoli» (Is 11,10). Il Nuovo Testamento saprà rievocare con molta efficacia il valore simbolico della scena narrata nel libro dei Numeri. Per il nome di Dio, grande e misericordioso, ebrei e musulmani, cristiani e diversamente credenti, uomini e donne, alziamo lo sguardo dalle macerie della nostra civiltà e invochiamo perdono. Impariamo, riconoscendo le nostre colpe, a scegliere la vita e non la morte!

 

«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo». Il “Figlio dell’uomo” è Gesù, umiliato fino alla morte di croce e glorificato – innalzato - nel mistero della sua Pasqua. Nessuno, tra gli umani, comprende le cose «del cielo» se non colui che «è disceso dal cielo».
Essere «disceso dal cielo» è aver ricevuto la pienezza dello Spirito che ha fatto di Gesù il nuovo santuario (Gv 2,19.21), il luogo della presenza divina (Gv 1,14). Così l’uomo levato in alto, il Cristo crocifisso e innalzato, sarà la presenza salvatrice di Dio, il luogo da cui sgorga la vita divina. Il «bisogna» segnala che la Croce non è il risultato di un concatenarsi di circostanze sfavorevoli, ma il compimento della volontà di Dio: la salvezza è legata alla Croce come punto focale di un amore che va «fino alla fine» (Gv 13,1).
Nel Vangelo non è più la vista, come in Nm 21,8 a dare la salvezza, ma la fede in Gesù. E la «vita eterna» non consiste in un esistenza promessa dopo la morte, ma è data già ora, in una esistenza vissuta in pienezza con e per gli altri, inseparabilmente unita alla vita di Cristo.

 

«Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». L’amore di Dio si concretizza nel dono del Figlio unigenito. Dando il proprio Figlio, Dio dona se stesso, ponendo sotto accusa il dominio finora incontrastato della morte. L’amore di Dio, reso visibile nella persona di Gesù di Nazareth, è un amore più forte della potenza della morte. La fede è questo: accogliere questa presenza amante e creativa di Dio nella adorabile persona di Gesù. Allora, la «salvezza» è passare dalla morte alla vita, per mezzo del Cristo che ha detto: «quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32).

 

Sì, Gesù «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,8-9). Domandiamoci ora: cos’è la croce? Non è solo un orrendo strumento di tortura. Essa è il simbolo della lontananza, dello smarrimento, della perdita di orizzonte dell’uomo. È il venir meno di ogni verità, la cancellazione del volto dell’uomo, come sta accadendo oggi a Gaza e in tanti altri luoghi di morte. La croce è l’uomo peccatore, piantato saldamente nella sua disperazione e incapace di trovare da sé la via della vita.

 

E chi è il crocifisso? È Gesù, che mandato dal Padre, cerca quest’uomo perduto per dirgli che Dio lo ama. Così com’è, nella sua condizione di peccatore, prima che lui possa fare qualsiasi cosa per Dio. Chi è il Crocifisso? È un Dio “fuori di sé”, un pazzo per amore che non vive per sé ma per l’altro, amore che continuamente si perde per comunicarsi al lebbroso, al paralitico, al cieco, allo straniero, al peccatore. Amore che dona la vita anche ai morti. Il Crocifisso è l’amore di Dio che raggiunge il suo vertice quando, finalmente, sulla croce, incontra l’uomo. È subito festa. È la Pasqua della nuova alleanza. Sono le nozze del Figlio di Dio con la creatura. Il peccato è vinto ed è vinta anche la morte. L’amore, infatti, è più forte della morte (Ct 8,6).

 

Nel Crocifisso non comprendiamo solo chi è Dio, ma anche chi è l’uomo, e l’uomo è quello che è per Dio; ma contemplando il Crocifisso comprendiamo anche che cosa sia il mondo, la sua bellezza, il suo destino. Sì, veramente, nel Crocifisso noi ci sentiamo amati, anche nel nostro peccato e nelle nostre lontananze; e sono amate anche tutte le creature.
C’è distinzione tra croce e Crocifisso. Don Germano Pattaro, un prete veneziano, teologo e mistico, pioniere dell’ecumenismo e della teologia del matrimonio, che ha anche molto sofferto, ha scritto: «Non amo la croce; amo il Tuo amore sulla croce». Appeso alla croce, dove apparentemente c’è il trionfo del potere e della morte, della menzogna e della violenza, c’è la massima rivelazione dell’amore e del perdono. Nel Crocifisso ci sentiamo amati da Dio e siamo felici.
Camminiamo insieme dietro il Crocifisso, vessillo di vittoria, di Pasqua in Pasqua, fino al giorno in cui «lo vedremo così come lui è» (1Gv 3,2).

 

Giorgio Scatto
monaco in Marango
giorgio.scatto@gmail.com

 

“Chi crede avrà la vita eterna”. E chi non crede? Forse quelli che credono (in cosa esattamente?) ne sanno della vita eterna? Non so, nessuno viene risparmiato dai dolori e dalle prove. Un giudizio ci sarà comunque per tutti, sul bene e sul male, su come sono andate le cose. Se la fede appartiene a pochi (tempora currunt) la coscienza appartiene a tutti. L’affermazione di Gesù non può avere valore giuridico, né la nostra adesione a Cristo ha carattere opportunistico.

 

Allora? Un’idea è che la vita eterna la si sperimenti perché è in corso d’opera. Credere non è una posizione ideologica, ma una relazione, una fiducia, un’amicizia. La percepiamo come un atto di verità interiore libero. Credere è ‘darsi’, senza sapere null’altro sul resto. vita eterna compresa. La scelta di un cammino di verità interiore porta a riconoscere la verità di Cristo.
Ce ne rendiamo conto se abbiamo la grazia di incontrare una persona, un prete dotato di carisma. “Fammi vedere Gesù in te”: era l’esortazione che un prete, appunto, rivolgeva ai suoi, perché diceva che quello era il dono più grande e più vero da fare, alla radice dei nostri incontri. Fammi vedere Gesù che ti ha liberato o da cui ti sei lasciato liberare e che ora ti manda verso gli altri con apertura e benevolenza. “Prima di vederci per la prima volta noi già ci conosciamo”, diceva anche. Vuol dire: ti aspettavo. A volte incontrando qualcuno proviamo titubanza prima di trovare il verso di un dialogo, un canale comunicativo. Invece l’altro ti è dentro prima ancora che gli sguardi si incrocino.

 

Ci sono persone così, poche purtroppo, in genere sono preti che diffondono un senso di libertà liberante, tale che ad incontrarli ci si sente benvenuti e benedetti, leggeri. Sono uomini di Dio che ‘spiegano’ Cristo col loro modo di essere e di fare.
Essi ci ispirano, a noi del popolo, il bene della gentilezza. Non sarà molto ma qualcosa fa. La gentilezza è l’unico modo sensato di muoversi nei rapporti. Si possono fare, a nostra volta, le prove di essere gentili, benevolenti verso chi ci sta accanto.
Non ci si pensa: questo mondo sta sulla competizione. Dovunque. La competizione è parente dell’invidia, della lotta, dell’uso strumentale delle cose, delle persone. È rapina. Inciviltà e guerra. E se l’obiettivo è di ordine economico, la gentilezza è maggiormente produttiva della competizione, perché è cooperativa, l’altra divisiva. La prima agisce sul benessere personale, la seconda lo distrugge. Questo insegna la biologia.
La gentilezza non è propriamente un valore tale che o ci si nasce o nisba. Non è come il coraggio di don Abbondio che ‘se uno non ce l’ha mica se lo può dare’. La gentilezza, insieme a molto altro, è il modo di essere di Cristo, forma della sua carità. Da lui la si riceve, da lui la si impara.

 

Valerio Febei e Rita

 

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