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La città dell’uomo abitata da Dio

Briciole dalla mensa - Domenica delle Palme (anno A) - 5 aprile 2020

 

LETTURE

Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   Mt 21,1-11

 

COMMENTO

 

Gesù entra a Gerusalemme, e tutto si carica di grande valore simbolico: è l'incontro decisivo tra il «Figlio di Davide» e la «figlia di Sion», tra Colui che porta la salvezza del Signore e la sua città. Anche se questo Re, discendente di Davide, assume i tratti della mitezza e non della forza; anche se la folla che oggi lo acclama, domani lo condannerà; anche se la città, invece di accoglierlo, è «presa da agitazione» e si interroga: «Chi è costui?»; tutto ciò non toglie che, in questa scena, si realizza la promessa di Dio al suo popolo: Egli lo visita con la sua salvezza, si compie ciò che generazioni e tante sofferenze hanno a lungo anelato e atteso.
Non corriamo troppo in fretta al calvario: sarebbe solo la morte di un disgraziato, se non ci fosse questo gesto di ingresso nella città, da parte di Gesù. Proprio Lui che ha sempre rifuggito le acclamazioni popolari, che ha evitato accuratamente le equivoche proclamazioni messianiche, ora è proprio Lui a suscitarle: Gerusalemme vede arrivare il suo Messia, Egli vi entra per prenderne possesso, non salendo su un trono, ma sulla croce. In questo modo «tutto [della Scrittura] è davvero compiuto» (Gv 19,28): Dio libera l'uomo dal male e dona la sua pace.

 

Gerusalemme rappresenta la città dell'uomo abitata dalla presenza di Dio. La Pasqua di Gesù crea una nuova Gerusalemme: un diverso e pieno vivere sociale, nella concordia e nella cura reciproca fra tutti gli abitanti. Perciò, in essa «non vi sarà più la morte ne lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4). Tutto questo male è stato assunto e portato dal Signore Gesù: è tutta la vicinanza di Dio con la nostra condizione. È quello che la Chiesa oggi deve annunciare. Ma forse non si crede fino in fondo a un Dio così «commisto alla nostra carne» (Ignazio di Antiochia) e si è ancora nostalgicamente legati a un Dio immediatamente trionfante, da celebrare in chiese vuote.

 

Gesù mostra la sua signoria sugli avvenimenti quando invia due discepoli a prendere in prestito un asino col puledro, e prevede ciò che accadrà. La previsione di eventi così banali può far sembrare tragica e ridicola la sua signoria. Potremmo dire: Lui che è così capace di sapere come andranno le cose, non poteva far sì di non finire in croce? Per Gesù, invece, quell'asino preso in prestito deve dire il cammino di Dio incontro all'uomo: così povero da dover prendere in prestito, così mite da cavalcare un asino invece che un carro da guerra. Questa è la sua signoria sugli eventi: scegliere liberamente e coscientemente la via della non-violenza, del rispetto, dell'agire pacifico. E così Gesù rinuncia a tutte le prerogative regali: la forza e il potere illimitato. La sua vera e grande forza è proprio questa rinuncia.

 

Matteo insiste nel descrivere la presenza di una «folla numerosissima» al suo ingresso a Gerusalemme. Si costruisce una scena esaltante: grande partecipazione popolare, acclamazioni di fede, invocazione liturgica, gesti di onore verso Colui che sta entrando in città. Verrebbe da dire: grande successo. Mentre Gesù non parla e non fa nulla, in totale distacco da tutto questo, come se non ci credesse a tanto religioso clamore: sta semplicemente sopra l'asino. Infatti Matteo parlerà, poi, per ben quattro volte, della «folla» che chiederà a Pilato la condanna di Gesù.
La bontà di una vera visione di fede non è data dalla presenza di tante persone acclamanti. Non dipende dalla quantità, ma dalla qualità: la fede non è data dall'essere in tanti, ma dalla dimensione interiore, dalla serietà, dalla coerenza, dal coraggio, dalla libertà.
Quest'anno non possiamo trovarci a celebrare la Settimana Santa. È l'occasione per sperimentare maggiormente questa fede interiore, attraverso la preghiera in casa e in famiglia: forse questo ci renderà più simili alle donne, che rimarranno fedeli a Gesù fin sotto la sua croce, invece che rischiare di essere come queste folle così trascinate dal numero. Proprio Matteo ci riporta uno dei detti più belli di Gesù: «Dove sono due o tre riuniti nel mio, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Questa è la dignità sacerdotale del popolo di Dio.

 

Se dunque l'essere e lo stile del Messia Gesù è la mitezza, allora la Chiesa è chiamata a conformarsi a Colui che afferma essere il suo «Signore»: «Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,14). Un Signore mite e che lava i piedi è un paradosso: ci rivela un essere e un comportamento di Dio a cui non avremmo mai pensato. Ma dato che questo ci sconvolge e ci mette in discussione, c'è il rischio che diventi motivo d'inciampo. La Chiesa rischia di celebrare vuoti riti "televisivi" se non entra nel mondo della mitezza: cioè essere a servizio gratuito dei credenti e di tutti gli uomini, nel loro vissuto.

 

Alberto Vianello

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