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La Chiesa porta frutto anche quando accoglie nelle chiese i poveri

Briciole dalla mensa - 27° Domenica T.O. (anno A) - 8 ottobre 2017

 

LETTURE

Is 5,1-7   Sal 79   Fil 4,6-9   Mt 21,33-43

COMMENTO

Gli esegeti moderni vedono nella lettera ai Filippesi, da cui è tratta la seconda lettura di questa domenica, un amalgama di diversi biglietti indirizzati dall’apostolo ad una stessa comunità. Tali ricerche e le diverse ipotesi di studio non mutano il senso e l’interpretazione della nostra pericope.
Di fronte alle preoccupazioni della vita, Paolo ci raccomanda un atteggiamento del cuore che vale «in ogni circostanza». Ma quando dice: «non angustiatevi per nulla», questo «nulla» corrisponde in realtà a precisi motivi di preoccupazione. Non è «nulla»! Paolo si trova ad essere «prigioniero di Cristo» (Fil 1,13), ed è possibile una sua condanna a morte (cfr. Fil 2,17). Alcuni «predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non rette» (Fil 1,17). Alla comunità di Filippi «è stata data la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui» (Fil 1,29), mentre «molti si comportano da nemici della croce di Cristo» (Fil 3,18).
Non c’è nessun superficiale ottimismo, che porterebbe Paolo a negare le preoccupazioni della vita, o comunque a minimizzarle.
Al contrario, è proprio guardandole bene in faccia che ci chiede che le nostre preoccupazioni non diventino una fonte di inquietudine.
Come poterle affrontare senza affogare in esse?
Luca e Matteo raccomandano la fiducia in Dio e l’abbandono alla sua provvidenza: «A ciascun giorno la sua pena» (Mt 6,34). Il mio vecchio patriarca, Marco, mi ripeteva spesso che il futuro è imprevedibile per tutti, e può essere fonte di angoscia, ma la giornata sta sul palmo di una mano, e tutti la possono portare con leggerezza. A sua volta Paolo propone come rimedio alle nostre inquietudini una preghiera continua e insistente: «Fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti». Non solo suppliche e preghiere incessanti, ma anche ringraziamenti !

 

E la pace di Dio custodirà i vostri cuori.

La pace promessa non è solo un’assenza di guerra, ma una promessa di felicità piena e duratura. La pace di Dio è promessa, e non solo augurata.
Se questa pace sorpassa tutto ciò che si può immaginare – supera ogni intelligenza! – ciò non vuol dire che la si debba cercare e collocare al di sopra di tutti i nostri concetti e dei nostri sforzi intellettuali, tanto al di sopra da non essere raggiungibile. Piuttosto si tratta di ottenerla per provare concretamente che il suo dono va oltre ogni aspettativa e desiderio, oltre ogni pensiero. Sottolineando pure che questa pace ci è data «in Cristo Gesù». Cristo è il luogo stesso di questa pace, il luogo dove questa pace avviene; noi la viviamo nella misura in cui siamo trovati in lui.
A questo punto Paolo ci offre quattro obiettivi piuttosto precisi: dobbiamo aver cura di tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro. Allargando poi lo sguardo a tutto ciò che è amabile, onorato, ciò che è virtù e merita lode. I termini usati si incontrano raramente nei testi paolini, appartengono piuttosto al vocabolario religioso ellenistico. Paolo ci chiede di fare di queste virtù umane il nostro ideale di vita e di assumerle come parte integrante del nostro stile di vita e del nostro comportamento cristiano. Ricordiamolo, ogni volta che siamo tentati di ridurre l’educazione religiosa al solo catechismo: costruiremmo un castello di carte, poggiato sul nulla.

 

Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna.

Un canto d’amore! La Scrittura è un canto infinito che narra di un indefettibile amore fedele di Dio per la sua sposa, la comunità di Israele, e i continui tradimenti, le ripetute vie di fuga, le sozzure e le idolatrie di questa donna amata. Per illustrare questo tema gli autori sacri ricorrono sovente alla similitudine della vigna. L’immagine viene ampiamente usata da Isaia, che non è il primo, e trova il suo definitivo approdo e la sua più piena esplicitazione nella predicazione e nella vita di Gesù.

 

Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle.

Il popolo considerava un ideale di benessere potersi riposare «all’ombra della sua vite e del suo fico» (1Re 5,5). Assieme all’olio e al frumento, la vigna costituiva il terzo elemento fondamentale della cultura mediterranea. E’ soprattutto, come dicevo, Isaia che presenta Israele come la vigna, proprietà privilegiata del Signore. Qualcuno , in questo brano che canta l’amore appassionato di JHWH per la sua vigna, vi legge il lamento di un innamorato tradito, il che unificherebbe utilmente tutto l’insieme. Il profeta parla in nome di questo sposo tradito e disilluso, che si sente ingannato, ma così facendo conduce i suoi uditori - non solo il popolo minuto, ma anche i capi religiosi – a condannare se stessi.
«Abitanti di Gerusalemme, siate voi i giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare che io non abbia fatto?». Il Signore attendeva che la sua vigna producesse uva, ma essa ha prodotto solo acini acerbi. Fuori metafora: «Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi».

 

Il vangelo si spinge più in là.

I contadini prendono i servi inviati a raccogliere i frutti nella vigna e uno lo bastonano, un altro lo uccidono, un altro lo lapidano, fino a cacciare fuori dalla vigna anche il figlio del padrone e a uccidere pure lui.
Ancora una volta viene narrata, con accenti drammatici, la storia delle relazioni di Dio con il suo popolo.
Anche la missione del Figlio si è conclusa con un insuccesso, ma questo fallimento non sarà che l’inizio di una storia nuova.
Che avverrà di quei contadini?
«Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
Non c’è una sostituzione; Dio non abbandona Israele per affidare la sua vigna alla Chiesa, anche se per molto tempo ci è piaciuto pensarla così. La Chiesa non è, semplicemente il nuovo popolo di Dio, perché Cristo ha fatto dei due – ebrei e pagani – un popolo solo, un solo uomo nuovo, facendo la pace per mezzo della sua croce. Il «popolo che porta frutto» è il popolo che accoglie il regno di Dio, che opera la giustizia, che edifica la pace. E’ il popolo dei piccoli e degli umili.

 

Permettetemi una chiusa polemica.
Qualcuno ha gridato allo scandalo e alla profanazione quando ha visto il papa e il vescovo di Bologna pranzare in san Petronio assieme a millequattrocento poveri, domenica scorsa.
Io vi ho visto invece una felice giornata di vendemmia, in una vigna rigogliosa, piena di buoni grappoli.
Le chiese sono profanate quando non si accolgono i poveri, gli stranieri, i carcerati, i malati, i fratelli che ti chiedono un aiuto per ricominciare a sperare.
Ho l’impressione invece che, talvolta, il fumo dell’incenso e le vesti troppo ampie e merlettate ci impediscano di vedere la realtà, ci impediscano di incontrare il Cristo vivente. Ci accontentiamo di quel Cristo che abbiamo imprigionato nei nostri codici e nei nostri riti.
 

Una Chiesa che non porta frutti di giustizia è una vigna sterile, che dà solo «acini acerbi».

 

Giorgio Scatto          

                   

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