Briciole dalla mensa - 5° Domenica di Quaresima (anno C) - 6 aprile 2025
LETTURE
Is 43,16-21 Sal 125 Fil 3,8-14 Gv 8,1-11
COMMENTO
Nel brano evangelico, Gesù si trova nel tempio, la casa del Signore. E vi arrivano «gli scribi e i farisei», i difensori della Legge e della religione, gli osservanti. Essi pretendono da Gesù che sia applicata la legge di condanna: «Mosé, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa» (sorpresa in adulterio). Ma, alla fine dell'episodio, gli uomini della Legge se ne vanno dal tempio uno dopo l'altro, e la donna non viene condannata, anzi: Gesù le apre un nuovo futuro: «Va…».
La casa del Signore non è più un mercato di ladri che vogliono togliere la vita a chi l’ha ferita. È, invece, in Gesù, il luogo della piena e incondizionata accoglienza, soprattutto di chi ha sperimentato i propri limiti.
Tutti e tre i testi biblici proposti dalla liturgia parlano di «novità», per contraddistinguere l'azione di Dio. Nella prima Lettura, il Signore promette agli esiliati una novità assoluta: «Non ricordate più le cose passate. Ecco, io faccio una cosa nuova». L'esodo dalla schiavitù dall'Egitto era la grande opera di Dio: insuperabile nel suo valore simbolico. Eppure la promessa è quella di una grande novità: non semplicemente qualcosa di mai conosciuto prima, ma che supera qualsiasi altra esperienza di liberazione operata da Dio.
Anche Paolo (seconda Lettura) dichiara di dimenticare il passato e di essere «proteso verso ciò che mi sta di fronte», perché è stato afferrato da Cristo e vede la sua vita progressivamente trasformata dalla sua grazia.
Nel Vangelo, poi, Gesù si rifiuta di giudicare e condannare la donna che ha infranto la Legge, e così le dona un futuro, proprio a lei che non aveva più alcuna speranza per il domani: «Va e d'ora in poi…». La novità in Dio non è semplicemente qualcosa di non conosciuto prima: è un'espressione di forza che supera tutte le possibilità umane. In Dio non è più possibile pensare o dire: «Non c'è più nulla da fare!». Perché «aprirò anche nel deserto una strada», dice il Signore. Un'umanità vecchia come l'attuale - non di età ma di operato, sempre più ripiegata sulle opere negative - sarà resa nuova da un'azione così radicale e sconvolgente del Signore da non potersi paragonare a nulla di già accaduto: questa è la sua «novità».
Il brano evangelico non è presente nei manoscritti più antichi: per almeno i primi tre secoli si è evitato di riportare questo testo, perché la prassi di Gesù risultava scandalosa. Così, quando è stato recuperato, non si conosceva più la sua collocazione, e lo si è posto nel Vangelo di Giovanni, quando, invece, più facilmente potrebbe essere attribuito a Luca.
Lo scandalo era provocato dal fatto che Gesù, in questo episodio, non condanna, "assolve" e rinvia una donna - scoperta in «flagrante adulterio», quindi in peccato - senza chiedere nulla e senza condizionare il perdono ad alcuno impegno di cambiamento: è pura e gratuita misericordia.
Anche il padre della parabola del "figliol prodigo" aveva accolto incondizionatamente il figlio che, dopo aver sperperato tutto, torna a casa ma solo per desiderio di soddisfare la sua fame. La gratuità dell’accoglienza di chi si è smarrito, da parte del Signore, è lo snodo decisivo della nostra fede. Bisogna fare molta attenzione, perché talvolta si pensa che sia la persona umana che vada in qualche modo incontro al dono gratuito di Dio attraverso le sue opere, oppure che debba in questo modo corrispondervi.
Nella storia della Chiesa, questo è stato un pensiero che si è affermato in quella che è diventata un'eresia: il semi-pelagianesimo. Una deriva che papa Francesco ha denunciato presente anche nella Chiesa di oggi: è il rischio di confidare nelle proprie opere, nel proprio attivismo. Riceviamo le elargizioni di Dio, ma noi vi corrispondiamo con il nostro comportamento e le nostre buone opere.
Oggi c'è molta preoccupazione perché c'è una caduta del numero di persone che partecipano alle attività delle parrocchie. Applicando questa logica che il cristiano è colui che fa le buone opere cristiane, se ne fa l’unico “termometro” della fede: vivere delle iniziative messe in campo. Invece, la fede va visto nell'attenzione di Dio verso i più smarriti e i più bisognosi della sua cura.
Paolo cerca la «giustizia, non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo». Ma il testo letterale dice: «la fede di Cristo». Come quella che Egli dimostra nella donna non condannandola, come volevano gli uomini religiosi pieni delle loro opere, anzi offrendole una novità di vita nel perdono.
L'enigmatico gesto di Gesù dello scrivere per terra - mentre i Giudei lo provocano a prendere posizione, «per avere motivo di accusarlo» - ha suscitato sempre molta curiosità, e si sono date svariate interpretazioni.
Per me, la più pertinente è quella che vede, nel doppio gesto di Gesù di chinarsi e alzarsi, un riferimento alla duplice salita e discesa di Mosé dal Sinai per ricevere da Dio la Legge «scritta dal dito di Dio» (Es 31,18). Una Legge infranta, con l'idolatria del vitello d'oro, nel contesto stesso nel quale essa veniva donata. Perciò la Legge è essa stessa segnata dalla misericordia di Dio.
Poi, il gesto di Gesù richiama il suo abbassamento e innalzamento sulla croce, espressione concreta dell'amore e della misericordia divini. Quello scrivere per terra rinvia all'unico segno che Gesù ci ha lasciato: la sua croce, sigillo di una vita spesa nell'amore per il Padre e nella misericordia per la storia degli uomini.
Alberto Vianello
Mi chiedo perché la liturgia ci richiami con insistenza la condizione di peccatori. Capitò in un asilo delle suore *** che in periodo di quaresima ‘esortavano’ i bambini entrati in classe (3-5 anni) a salutare con un bacio un crocifisso steso su un tavolino. Tra l’altro non era un crocifisso stilizzato ma realistico, stile antico, gocce di sangue…. I bambini erano turbati. Alcuni genitori, peraltro insegnanti, ne parlarono con la superiora e la faccenda fu risolta. Era cristianesimo?
Non è facile rappresentare il cristianesimo ai piccoli con questo segno. Bisogna dire che nei primi secoli l’icona che portava il segno del cristianesimo era il buon pastore, con tanto di pecorella caricata sulle spalle. Durante il medioevo, la chiesa bizantina si riconobbe nel Cristo pantocratore, mentre in occidente il pensiero teologico e probabilmente le condizioni storiche e culturali, l’esperienza della precarietà ha portato la Chiesa a far sintesi nel simbolo del crocifisso, sconfitto e vittorioso.
Un ragazzino, 10/12anni, aveva qualche difficoltà a capire come quel segno lo riguardasse: che ho fatto di male, quale peccato così grave ho fatto da causare quella morte in croce? È chiaramente un discorso che solo un ragazzino può fare e neanche tanto, sia perché son già furfantelli, sia perché se davvero innocenti capiscono più cose di un adulto. Ma bisogna diventare adulti e avere tanti peccati come tante pietre da scagliare, per capire che il crocifisso ci riguarda e meno male che c’è? Allora le mani lasciano cadere le pietre.
L’uomo nasce per fare guai? Certamente no: ci sono persone innocenti per natura e per grazia. Sante, come Maria. Ma in genere la musica è un’altra. E tutti abbiamo bisogno di perdono. Ma è questo il senso di Dio? E del cristianesimo? Per questo ha creato il Creato? Questo sospetto ha il fiato corto. Non siamo al mondo per mangiare frutti proibiti e per pentircene poi ed essere afflitti di aver perso la compagnia di Dio, la pace, la grazia. Succede e poi se ne ha nostalgia e si torna per essere riaccolti. Questa è la fenomenologia, la storia, certo. Ma il senso è abitare con lui. A questo tende la Settimana delle settimane, alla quale ci avviciniamo a grandi passi. Il che ci suggerisce di correggere, semmai ci siamo impigliati, l’idea che il cristianesimo sia il luogo della colpa e della penitenza, compensato a scadenza delle feste liturgiche. Talvolta è necessario dirselo, mandare una parola chiara giù nel profondo: quel che conta è essere in compagnia di Gesù, nel Giardino nonostante tutto.
Il padre non stava neppure a sentire il discorsetto di colpevolezza del figlio ma “presto, rivestitelo, ridategli l’anello, preparate la festa…”. Era arcicontento.
Una parola simile la dice Isaia: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco io faccio una cosa nuova….”. Me lo ripeto: non pensare più alle cose passate. Mi fa bene. E Paolo: “Dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.
“Per me infatti vivere è Cristo”.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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