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L'eccesso di amore del Padre

Briciole dalla mensa - Santissima Trinità (anno A) - 4 giugno 2023

 

LETTURE

Es 34,4b-6.8-9   Dn 3,52-56   2Cor 13,11-13   Gv 3,16-18

 

COMMENTO
 

Per parlare del Dio in tre Persone, le Letture ci parlano dell'amore di Dio e del suo "coniugarsi" nella storia dell'uomo come perdono, comunione, e dono gratuito.
Nella prima Lettura, la rivelazione di Dio avviene dopo il peccato del vitello d'oro, da parte di Israele. Dio si è legato in Alleanza con il popolo. Nel momento in cui questo gli è infedele, Dio rimane perseverante nel suo amore: così fedeltà e amore diventano responsabilità nei confronti degli uomini peccatori. Solo così l'amore di Dio è davvero per il mondo, solo così il suo amore non condanna ma salva. In questo modo il popolo conosce Dio, o meglio né sfiora il mistero, nel suo essere "misericordioso, lento all'ira e ricco di amore". La Legge, appena rivelata ("non avrai altri dei..."), è stata subito infranta: l'unica Legge possibile, quella che non condanna l'uomo anzi lo libera, è quella dell'amore divino. D'ora in avanti, il Dio che guida il popolo alla libertà sarà tutto e solo il Dio del perdono. Allora, il vitello d'oro da lasciarsi indietro possono essere le nostre prestazioni religiose.
Completa tale insegnamento per la Chiesa l'atteggiamento di Mosè: era innocente del peccato commesso da Israele, eppure si mette liberamente fra quelli che hanno peccato: "Perdona la nostra colpa e il nostro peccato". Come nel Vangelo, il verbo di Dio non è "giudicare", ma "salvare". C'è da chiedersi come mai i cristiani a volte appaiono più come quelli che giudicano, che non quelli che dicono parole che aprono a salvezza.

Il Vangelo si mostra la cifra dell'amore di Dio per il mondo: lo ama tanto da donargli il proprio Figlio. Tale cifra esprime l'eccesso dell'amore del Padre, un eccesso espresso dalla vita del proprio Figlio. Questo è davvero un mistero di Dio più grande della sua grandezza: "Così Dio amò il mondo", dice il testo letterale, mettendo all'inizio e quindi al centro dell'attenzione tale modalità dell'amore di Dio. Perché Dio ama così il mondo, che dall'inizio gli ha procurato sempre più delusioni e dolori: è davvero un mistero. D'altronde, ogni amore lo si può solo accogliere, restandone stupiti e grati, invece di cercare di capirlo.

"Dio amò": il tempo del verbo indica un'azione puntuale e passata: fa riferimento all'evento storico della morte in croce di Gesù. Essa rivela la realtà dell'amore Divino: è unilaterale e smisurato. Ma il fatto è che così, ci assicura che ama davvero tutti: perché ama tutti i crocifissi, coloro che nessuno ama, coloro che non possono corrispondere né contraccambiare l'amore. Il dono così sovrabbondante del Padre nell'evento della croce di Gesù, suo Figlio, assume allora la concretezza del perdono e dell'accoglienza del lontano e del perduto. 

In effetti, Gesù, per parlare di Dio, non ha parlato di numeri: Dio uno, trino. Invece ci ha parlato dell'amore di Dio. Il Dio trinitario è il Dio che non è capace di stare senza l'uomo. Anzi, più questo si allontana, più Dio cerca di recuperarlo al suo amore. Allora credere significa, essenzialmente, credere all'amore di Dio per l'uomo (cfr. Gv 4,16). Se, insieme a tale fede, ci si lasciamo condurre dallo Spirito, allora si può abitare l'amore e sperimentare la comunione con Dio. L'amore è il cuore della vita trinitaria: starci dentro vuol dire quindi conoscere il Dio Trinità. Dunque possiamo conoscere Dio non dentro i numeri, ma dentro una storia di perdono: questa è la porta attraverso la quale aprirsi al mistero di Dio, Padre, Figlio e Spirito. Nelle parole del Vangelo affiorano le figure del Padre e del Figlio, mentre Gesù aveva appena affermato a Nicodemo la necessità di rinascere dall'alto, cioè dallo Spirito, per entrare in questo abbraccio di amore (cfr. Gv 3,1-8). 

Infatti Dio rischia la sua stessa paternità, donando al mondo il proprio Figlio. È totalmente attratto dallo scopo per il quale ha mandato il Figlio: realizzare la comunione con Dio. Uno scopo che non preveda assolutamente la croce: questa è stata solo la volontà degli uomini. Solo che Dio si è servito di tale tremendo operato umano per mostrare fino a che punto ci ama: perdere il proprio Figlio nella morte in croce. E Gesù, lottando nella fragilità della sua condizione umana, ha accettato pure Lui questa prospettiva, offrendosi alla croce per vivere fino alla fine, oltre qualsiasi limite, il suo amore per l'uomo.
Questo amore riempie il mondo e decide la storia. Tutto e tutti andiamo verso questa comunione d'amore, nonostante tutte le contrapposizioni negative che la storia e le vicende personali cercano di impedire.

 

Alberto Vianello 

 

 

Ancora un paio di colpi e il tempo ordinario riprende a scorrere lento come un fiume che ha guadagnato il piano.

Ma non suona strana la parola ‘ordinario’ dopo la Pentecoste? Lo Spirito santo è da intendere esattamente come realtà fuori dall’ordinario. Quando spira forte cambia la storia dei singoli e molto altro. È l’ultima parte della Rivelazione, che, se non è solo celebrazione rituale (e allora possiamo tornare a pescare come Pietro, nei giorni che seguono la Pasqua, come registra Giovanni 21,3), è il modo della presenza di Gesù nel mondo. Niente è come prima. Si torna certamente al tempo feriale, ma i fatti della Pasqua cambiano il senso delle cose. È come un ragazzo ed una ragazza che incontrandosi si riconoscono e la vita non è per nulla uguale a prima. Se custodiscono quell’incontro, una gioiosa novità abiterà con loro.

È il caso di chiedersi se gli avvenimenti celebrati sono ‘accaduti’ dentro di noi, per noi, perché questo dà il senso agli atti liturgici.

Ora, con la Pentecoste lo Spirito è fra noi, in noi nella misura che ci disponiamo ad attenderlo, ché non sempre soffia, a chiamarlo con gemiti indicibili, a seguirlo in obbedienza.  C’è un’altra vita oltre quella che solitamente viviamo, un altro livello oltre quello ordinario, un altro pensiero rispetto al nostro in cui soprattutto gioca la paura. Se appena concepiamo i fatti della Rivelazione non come frutto di immaginazione ma come fatti appunto, allora è la festa. Questo è stato. C’è da chiedersi se il dubbio sia, come spesso accade, indizio di accidia: giudico secondo il mio umore e rendo il mondo simile al mio nonsenso. Da qualche parte giunge voce non è così, c’è luce là fuori… Ma c’è resistenza a sentirla se no tocca scendere in minoranza, ricominciare la fatica, come quel tale che si era sepolto e poi portava ogni giorno fiori e lacrime sulla sua tomba.  Ignorare il dono, anche fra umani, è segno di malagrazia che offende il donatore. Ed è l’autocondanna, come dice il Vangelo. A che serve fare di più? Anzi, da gran signore qual è, chi dona se ne dispiace, ma che può farci? Aspettare e guardare se da lontano riappare chi se ne era andato, come fa il padre di un figlio scapestrato (Luca 15,11-32). Non succede anche qui, sulla terra? Capita e speranza, ansia, da noi anche scrupoli nutrono l’attesa. Pare un atteggiamento perdente, ma è necessario all’economia del ritorno.

Al contrario si può essere pieni di gioia come Paolo esorta, e salutarci con abbracci santi ed esultare quando ci si incontra. “Noi ci conosciamo prima di incontrarci, senza esserci mai visti”, diceva il prete parlando della sua comunità. Non era proprio così, ma l’intenzione c’era. Allora c’è ragione di capire e condividere l’esultanza della Chiesa tutta che fa festa contemplando il mistero della Trinità, della relazione, che è Spirito, tra il Padre e il Figlio amatissimo. È pazzesco a pensarci, gli addetti ai lavori ne parlano con scioltezza, ma vengono le vertigini a prendere le parole per quel che significano: quella è la nostra famiglia! Quelli che credono sono altrettanti familiari. Lasciare che l’ascolto ‘accada’ dentro di noi: è follia pura. Ma è solo questione di accogliere la Parola nella sua purezza. Paolo dice agli Efesini (2,19): “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio”. Non per immaginazione, per finta, per prova. Né perché bravi in qualcosa.

E ai Romani (8,16): “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio”.

Attesta l’eccedenza, il fuori misura, il politically incorrect dell’amore che unisce il Padre e il Figlio. E ci tira dentro. 

 

Valerio Febei e Rita

 

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