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Il Risorto esige porte aperte

Briciole dalla mensa - 2° Domenica di Pasqua (anno C) - 28 aprile 2019

 

LETTURE

At 5,12-16   Sal 117   Ap 1,9-11.12-13.17-19   Gv 20,19-31

 

COMMENTO

Il Vangelo di questa domenica si apre presentandoci la comunità dei discepoli del Signore che, il giorno stesso della sua risurrezione, si trova chiusa in casa, separata, sulle difensive, quindi una comunità che legge il mondo esterno solo come una minaccia. La tomba di Cristo è scoperchiata e vuota, loro, invece, sono ancora sigillati dentro i loro timori del mondo.
Purtroppo dobbiamo riconoscere la stessa situazione in una limitata ma rumorosa porzione della Chiesa di oggi. Certe critiche per le aperture di papa Francesco esprimono proprio un vivere la Chiesa come una cittadella assediata, come un gratuito giudizio negativo su tutto ciò che sta fuori di essa, come l'arroganza di pretendere di essere possessori unici della verità mentre tutto il resto è nell'errore. In questo modo non si riconosce come papa Francesco non faccia altro che applicare in un modo linearissimo e coerentissimo semplicemente il dettato del Vaticano II, cioè il supremo magistero della Chiesa che le ha impartito di uscire da se stessa e di entrare in dialogo con il mondo, non rinunciando a Gesù Cristo, ma portandolo dentro la vita "laica" delle persone, anzi, riconoscendolo già presente nel quotidiano pulsare dell'umanità.
E, su questa necessità di uscire, il racconto evangelico dei discepoli chiusi in casa per paura dei Giudei ci rivela che non si tratta di concezioni diverse della Chiesa, ma della chiusura che rivela la mancanza di fede nel Risorto e nelle energie operanti della risurrezione: una Chiesa arroccata nel suo credere, in verità, è una Chiesa senza fede. Così Gesù ha fatto meno fatica ad uscire dal sepolcro che a entrare nelle vite chiuse dei suoi discepoli.

 

Ma la Chiesa è spinta a uscire dalle sue paure e dai suoi pregiudizi anche dal modo in cui Gesù risorto da morte si presenta e si colloca fra i suoi discepoli: Egli «sta in mezzo», dice Giovanni. Le regole sintattiche del greco sono molto precise: se si intendeva dire che Gesù stava in mezzo ai suoi discepoli, era necessario esprimerlo formalmente. Perciò, lo «stare in mezzo» non può essere un riferimento agli uomini chiusi in casa, ma assume, per forza, una valenza simbolica: il Risorto è Colui che «sta in mezzo», non è andato altrove, né ha assunto semplicemente un'altra condizione. La risurrezione è la cifra del modo pieno in cui Gesù Cristo «sta in mezzo» agli uomini: ci sta da risorto, cioè nella pienezza della sua umanità, «primizia» (1Cor 15,20), cioè modello è causa del destino di risurrezione per tutti.
Solo che questo suo «stare in mezzo» inizia proprio dall'esperienza che ne fanno i discepoli. Vuol dire che essi hanno principalmente questa testimonianza da comunicare al mondo: il Signore Gesù, crocifisso e risorto, «sta in mezzo» all’umanità. Perciò ogni separazione dalla condizione umana è, per i cristiani, negazione del Risorto.

 

«Gesù mostrò loro le mani e il fianco»: il suo corpo risorto porta le ferite dell'amore per i suoi discepoli, un amore che Egli ha vissuto fino alla fine (cfr. Gv 13,1). Quanta sofferenza, sì, in quel corpo, ma anche quanto amore! È soprattutto questo che i discepoli colgono. Infatti Giovanni dice che «gioirono al vedere il Signore». Se avessero interpretato quelle piaghe semplicemente come il segno della sua sofferenza, senz'altro si sarebbero sentiti rattristati, e non nella gioia. Perché, rispetto a quei dolori, sapevano bene di non essere stati capaci di solidarietà con il loro Maestro, ma di essere tutti fuggiti, preoccupati di salvare la pelle. Invece, se le ferite di Gesù sono segni di amore (oltre che di sofferenza), allora davvero possono gioire: perché l'amore non recrimina e non accusa, ma accoglie, oltre ogni abbandono. Dall'esperienza di quell'amore gratuito, i discepoli possono imparare una nuova fedeltà da vivere.
Si tratta, poi, di una fedeltà che si traduce nel portare la misericordia del Signore a tutti: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati». Per esercitare questo ministero nel mondo i discepoli ricevono lo Spirito Santo da Gesù, che alita un nuovo soffio di vita divina su di loro. Questo sta a dire che la facoltà di perdonare il male non è un potere giuridico, ma un carisma, un dono, una grazia. Perciò, alla fine, il Signore domanderà conto alla Chiesa non tanto dei peccati che ha commesso (dei quali deve rendere conto maggiormente agli uomini), quanto di quelli che non ha saputo perdonare.

 

L'assenza di Tommaso e la sua pretesa di vedere e toccare, creano la situazione di una nuova esperienza del Risorto per gli Apostoli. «Otto giorni dopo»: una settimana dopo il giorno della risurrezione, quindi è la nostra domenica. È un'allusione al ritrovarsi, poi, della Chiesa per celebrare l'Eucarestia: è questo il "luogo" di esperienza del Risorto. Forse le nostre Eucarestie non sono più tanto un'esperienza del Signore Gesù che si offre con il suo corpo risorto da morte, un corpo che parla di un amore sconfinato: per questo continua a diminuire la presenza della gente alle celebrazioni e, di conseguenza, diminuisce la fede. Dovremmo avere il coraggio e la competenza per cambiare radicalmente il rito eucaristico, perché i suoi codici comunicativi non sono più in grado di trasmettere il contenuto della celebrazione alla sensibilità dell'uomo di oggi, che è molto diversa da quella dei secoli passati.
In ogni modo, non esistono soluzioni che possano rovesciare la situazione da un momento all'altro. E’ significativo, infatti, che anche i discepoli, che avevano fatto esperienza del Signore risorto tanto da comunicarla a Tommaso che era assente, «otto giorni dopo» sono di nuovo chiusi in casa: sono ancora paurosi e l'aver incontrato Gesù vivo non li ha immediatamente aperti alla fede. Quel loro (e nostro) cuore indurito, come sono rinsaldate le porte della casa dove si trovano, potrà progressivamente trasformarsi in cuore di carne nell'assiduità all'ascolto del Vangelo: «Questi segni [compiuti da Gesù] sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio». È quello che ci auguriamo anche per noi, in questo tempo di Pasqua, per essere cristiani che sanno stare dentro questo mondo, come ci sta il Signore risorto.

 

Alberto Vianello

 

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