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Il "piano pastorale" di Gesù

Briciole dalla mensa - 5° Domenica T.O. (anno B) - 7 febbraio 2021

 

LETTURE

Gb 7,1-4.6-7   Sal 146   1Cor 9,16-19.22-23   Mc 1,29-34

 

COMMENTO

 

A causa della sua sofferenza, Giobbe vede la vita come una continua lotta e un faticoso impegno: come il «servizio del mercenario», che fa il militare, spesso maltrattato, o che è operaio pagato a giornata, sottoposto a un duro lavoro alla pari di uno schiavo. Sono tutte e tre delle categorie fra le più basse nella scala sociale. Dentro questo contesto di infinita fatica, Giobbe lamenta la sua immensa sofferenza fisica e psichica. Per questo Libro, gridare a Dio il proprio dolore è atteggiamento di fede molto più vero di chi, come gli «amici» di Giobbe, vuole dare alla sofferenza una ragione religiosa: correzione di Dio, invito alla conversione, punizione per cui chiedere perdono, grazia di Dio (!)… Dunque è legittima la protesta dell'uomo nella malattia, sono giusti la rabbia e il rifiuto. Perché la sofferenza non è giustificabile, altrimenti diventerebbe qualcosa di positivo. Nella Bibbia, la sofferenza non è mai idealizzata. C'è una protesta contro il dolore che è obbligatoria per il credente, perché sarebbe una bestemmia rimpicciolire Dio attribuendogli il fatto che Egli faccia provare la sofferenza per raggiungere i suoi scopi.

 

Anche Gesù, come Giobbe, protesta contro il male, solo che in Lui la protesta si traduce in gesti potenti come i miracoli. È quello che leggiamo nel brano evangelico, dove Gesù guarisce i malati e libera gli indemoniati. Metà dei versetti del brano è proprio dedicata a questa sua attività. Tutta l'azione di Gesù è una ribellione contro la sofferenza e il dolore. Gesù non è venuto nel mondo con un "piano pastorale" preparato prima, in cielo, seduto al tavolo con il Padre e lo Spirito. Gesù esce simbolicamente dalla sinagoga di Cafarnao, luogo dedito all'attività prettamente religiosa, nella quale - in ogni caso - aveva compiuto l'atto di culto più proprio: liberare una persona dal condizionamento del male. Percorre pochi metri ed entra in casa di Simone e Andrea: il luogo della vita concreta e quotidiana degli uomini e delle donne di quel tempo. La casa, la vita sostituiscono la sinagoga e diventano il primo luogo teologico della presenza e dell'azione del Signore: lì va innanzitutto riconosciuto. Mentre nei luoghi di culto dovremmo portare il mondo e uscirne con quello stesso mondo, ma trasfigurato. E, in casa dei primi due discepoli, parlano a Gesù della suocera di Pietro ammalata. Lui la guarisce e la restituisce all'identità più propria che la società del tempo dava alla donna: il servizio casalingo. Il "piano pastorale" di Gesù sta tutto qui: una casa amica, una donna con la febbre; e la necessità di dire a queste situazioni concrete che Lui è venuto a prendersi cura dell'uomo, soprattutto delle sue sofferenze, non con le parole, ma nei fatti.
Oggi, il "piano pastorale" può nascere solo dentro i problemi di malattia e di incertezza dati dalla pandemia, dalla necessità di rifondare una società fatta di relazioni umane dopo il delirio egoista del consumismo, dall'emergenza dei poveri, dall’allarmante violazione dei diritti della persona, ecc. Un'attività pastorale non può essere ridotta a ciò che parla di Dio (culto, catechesi, sacramenti), ma è "pastorale" tutto ciò che promuove l'uomo, gli fa fare l'esperienza della bellezza e delle relazioni fraterne. Il mondo sarebbe finito da un pezzo se Gesù si fosse limitato a far prediche e a parlare di Dio ai ragazzi nella sinagoga. Ci salva quella casa, quella porta della casa intorno alla quale si raduna «tutta la città», nei cui confronti Gesù «guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni». Ci salvano ancora quei «villaggi vicini» dove Gesù si reca pellegrino e banditore del Vangelo, cioè del Regno che si è fatto vicino all'uomo, si è fatto umano.

 

Ma Gesù si lascia indietro anche i segni della sua cura concreta dell'uomo e va oltre. Non ideologizza quella casa. Al mattino presto vi esce, abbandona anche il villaggio e va in un luogo deserto a pregare. La preghiera, se è autentica, ci spinge alla marginalità, a non rimanere ancorati ai risultati, ad abbracciare la gratuità. La libertà dai risultati non è frutto dell'ascesi, ma dell'ancoramento a Dio attraverso l'orazione, che cambia l'uomo che prega e non Dio che è pregato.
In Gesù, la preghiera non è una specie di "ricarica", ma è quella spoliazione totale che lo porta a cogliere la presenza del Padre dentro le situazioni umane anche più lontane. Infatti subito dopo guarisce un «maledetto da Dio» come è un lebbroso, e chiama uno fra i peccatori più disgraziati  - un pubblicano - a essere suo discepolo.
La Chiesa deve ancora imparare a uscire dai suoi recinti pastorali, dove sono rimasti gli «amici» di Giobbe, e a scoprire come il Signore li travalica in ogni uomo, nel suo dramma e nella sua bellezza.

 

Alberto Vianello

 

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