Briciole dalla mensa - Natale del Signore - Messa della notte - 25 dicembre 2024
LETTURE
Is 9,1-6 Sal 95 Tt 2,11-14 Lc 2,1-14
COMMENTO
«Il censimento di tutta la terra»: censiscono, e così si sentono i padroni della terra. Annotano nomi, ma non interessano loro le persone: interessano quanti nomi, quanti tributi, quanti soldati per la guerra. C'è un nome fra i tanti: Gesù, figlio di Giuseppe, della discendenza di Davide. Quelli del censimento non sono neppure lontanamente sfiorati dal fatto che quel nome fosse quello di Dio fatto uomo, quello che addirittura dà il nome a Dio, che, per sempre, è il Dio-con-noi, appunto in Gesù di Giuseppe.
Anche oggi, si fanno cronache di nomi, ma non si coglie il significato profondo e il valore infinito di ciascun nome. Siamo nomi ridotti a prodotti di mercato: ci chiamano per nome e conoscono le nostre preferenze, ma per venderci qualcosa o per essere noi venduti. Si è perso il significato di ogni nome, che è essere un'unica e inimitabile storia d'amore: quella di Dio che l'ha voluto, l’ha creato, lo cura e gli dà la vita eterna.
C'è un'altra categoria di attori nel racconto così sobrio della nascita del Salvatore, oltre a quella di chi registra i nomi: sono i pastori. Quelli del censimento si sentono i padroni del mondo, i vigilantes della terra, ma non sanno vigilare sull'evento più grande del mondo e della terra. Invece i pastori vigilano i loro greggi, soprattutto quando è più difficile: durante la notte. E i pastori conoscono una per una le loro pecore, e le chiamano per nome. Loro condividono la vita con le loro pecore; le curano e le custodiscono: non sono quantità, non sono prodotti.
Ed è proprio chi sa conoscere uno per uno e sa prendersene cura che Dio sceglie per rivelare e donare il suo grande mistero: non chi sa contare i suoi sudditi, i suoi soldati, i suoi poteri, i suoi soldi.
«Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce». Ci sono due cose che mi colpiscono, nella loro immediatezza: che i cieli non sono chiusi, e che i cieli non si aprono per far scendere delle condanne o dei castighi, ma per far giungere il Salvatore.
I cieli chiusi significherebbero la realtà di un Dio lontano e disinteressato dell'uomo. È la contestazione che, in genere, la sofferenza umana rivolge al Creatore. Ma la Scrittura, testardamente e continuamente, ci narra la storia di un volto di Dio che è l'opposto dell'impassibilità: ogni situazione, ogni svolta di dolore, di oppressione e di disperazione umane sono sempre ascoltate da Dio, da Lui accolte, chinandosi su di esse per aiutare e sostenere. Credere in Dio è credere, essenzialmente, che Lui è sempre disponibile e pronto ad aprire i cieli e a venire in soccorso dell'oppresso. Il fatto che si creda poco è dovuto al motivo che abbiamo smarrito l'assiduità alle Scritture.
Stiamo per entrare nell'anno giubilare, anno di cammino nella speranza: sperare ha un contenuto e un progresso se ci mettiamo in ascolto della parola di Dio.
Il secondo dato è che il cielo è aperto non per far piovere condanne. Celebriamo la nascita del Figlio di Dio diventato uomo. Per tutta la sua vita umana, Gesù non ha mai condannato nessuno. Ha aperto a tutti la salvezza, come quando è entrato in casa di Zaccheo, peccatore pubblico e "istituzionale"; ha poi aperto il paradiso addirittura al delinquente crocifisso con Lui; ha aperto gli occhi al cieco considerato colpito per i peccati; ha aperto la vita dello Spirito alla donna samaritana: appartenente a un popolo bastardo in quanto alla fede e segnata da una vita moralmente riprovevole; e avanti così: dovremmo ripercorrere tutto il Vangelo, perché tutto è accoglienza incondizionata e gratuita. Dal cielo non scendono fulmini di condanna, ma il Salvatore: questo è il Vangelo.
Nella Bibbia, la «gloria di Dio» è il suo «peso»: è ciò che di Lui l'umanità può sperimentare, può vedere farsi storia e storie di salvezza; e gesti concreti "umani" che portano alla fiducia nel Signore. La presenza di Dio fra gli uomini si fa presenza di amore concreto e fattivo per gli uomini.
Ebbene, questa tangibilità, questa sperimentabilità di Dio come amore concreto è come un abito di luce che riveste i pastori, loro, con gli abiti che sapevano di capra e di pecora. È l'abito nuovo e definitivo dell'uomo: il vestito della stessa vita (la luce) di Dio nel suo essere tutto amore e gesti di salvezza.
Noi, che odoriamo di tutte le nostre fragilità, veniamo vestiti della veste umana più bella, la stessa che riveste Dio stesso, diventando uomo in Gesù Cristo. Perciò la nostra vocazione, il nostro cammino è crescere in umanità, guardando alla sua umanità, di cui siamo rivestiti.
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». La «gloria» torna in cielo, in alto, perché quell'umanità piena è un cammino che si compie pienamente solo in Dio, al di là dei limiti umani, quando tutti i nemici, compresa la morte, saranno vinti.
Però la moltitudine degli angeli proclama che un pegno di luce splendente rimane sulla terra: la pace agli uomini. È un dono, una promessa, un impegno. A questo è destinata la storia, a smentire i profeti di sventura, ma anche a smentire chi pratica e propugna la guerra, che sia difensiva, protettiva dei propri diritti, garante di sicurezza, o altro.
«Buon Natale» e un augurio, un auspicio? Quest'anno non mi sento di usare tale formale augurale, perché mi suona vuota. Auspico che tutti pratichiamo la pacificazione dei cuori e siamo dei cittadini che dicono no a qualsiasi politica che usa la forza o la discriminazione verso chi è straniero.
Alberto Vianello
Paolo era un fariseo, un uomo colto, di buona famiglia e miglior parola. Uomo di dottrina e di giudizio, di cui facevano le spese i primi cristiani. Ma non pare affatto che la sua intelligenza gli sia servita a conoscere il Giusto e la Giustizia. Nel brano della lettera a Tito si capisce che la sua conoscenza di Gesù è una illuminazione dall’alto, tutt’altro che frutto delle della sua riflessione. Il piano di Dio è una realtà alla quale non è arrivato mediante ascesi e studi.
Il Natale che noi tendenzialmente ‘celebriamo’ è fatto di emozioni, mettiamo pure di buone consuetudini. Una volta l’anno ce lo possiamo permettere. Tutt’al più festeggiamo i nostri buoni sentimenti, cioè noi stessi che, compiuto un gesto di benevolenza, ce ne torniamo ripagati. E magari ce ne fossero di gesti simili durante l’anno!
Ma è troppo poco e il Natale non è la festa dei buoni sentimenti, e lasciamo perdere i panettoni, non è la festa dei bambini o dei nonni. È la festa di anniversario del Dio che nasce tra noi, come noi. Ma come, ma quando? È così, prendere o lasciare. Non c’è argomento che valga a rendersene conto. Non c’è modo con cui questa nascita, e la stessa concezione in Maria, ci diventino plausibili, razionali. Non c’è modo che ‘giustifichi’ Dio che nasce come bambino.
Neppure la scoperta di essere incapaci, noi uomini, di salvarci, cioè di venire a capo di noi, della nostra storia sulla terra, del significato e dell’incerto destino. Gli insuccessi dell’uomo non bastano per capire Dio né per ammetterne l’esistenza. Che se pure si arriva a tanto che ce ne facciamo? Il dio del deismo, il dio che viene fuori da quei discorsi come ‘qualcosa o qualcuno ci deve essere’, a che servono? Questi appunto son tentativi di razionalizzare il mistero comunque diffuso, ma non è questo.
Bisogna aprire gli occhi e le orecchie: c’è un bimbo che nasce nella Chiesa e nei cuori retti e semplici, se vogliono, che rivela l’identità divina sua e del Padre per quel che poi ha detto e fatto. È Dio per questo e chi ne celebra oggi il compleanno lo fa in vista dei frutti della sua vita, morte e risurrezione. E in forza della propria fede.
Allora si celebra il Natale perché si celebra la propria adesione al Vangelo, quando lo si capisce e quando non lo si capisce. Vero anche che Egli non ci forza. Siamo liberi. Ma l’amore parla più che non parlano le parole. Dio sa che l’uomo è capace di non riconoscerlo e di rifiutarlo. Tanto è stato, tanto è. Per questo è venuto Lui stesso, di persona.
Non c’erano altri attorno, solo i pastori, gente incolta e semplice. Richiamati dall’angelo scesero alla grotta, videro il segno, lo accolsero e fu per loro speranza di felicità nuova.
Che avevano loro che noi non abbiamo? Forse l’odore delle pecore.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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