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Il grido del povero e la sequela di Gesù

Briciole dalla mensa - 30° Domenica T.O. (anno B) - 27 ottobre 2024

 

LETTURE

Ger 31,7-9   Sal 125   Eb 5,1-6   Mc 10,46-52

 

COMMENTO

 

Geremia è un profeta commovente. Nel momento più tragico per Gerusalemme, egli scrive il «libretto della consolazione», proprio quando la città subisce la distruzione ad opera delle armate babilonesi (536 a. C.). Geremia vuole incoraggiare la speranza, dopo la rovina. Il popolo è ridotto a un «resto», che presenta solo miseria, dolore e debolezza. Eppure Dio lo vuole liberare, proprio questo residuo di popolo abbandonato: «Fra loro sono il cieco, lo zoppo, la donna incinta e la partoriente». Ma proprio con questi, Dio vuole far nascere una grande e bella famiglia, la sua famiglia: «Perché io sono un padre per Israele». È in questo modo che Dio si è legato all'umanità (cfr. Os 11,1). E un padre non può che prendersi cura e salvare i suoi figli, specialmente di questo popolo che è il suo «primogenito».
Questo legame d'amore Geremia lo esprime, tre versetti prima del brano di questa domenica, con delle parole impareggiabili: «Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo ad esserti fedele» (Ger 31,3). Non c'è caduta dell'uomo, non c'è vittoria del male che non siano superate dall'amore del Signore: questa è l'eternità della sua fedeltà. Nella peggiore e più disperante situazione possibile, l'uomo non può mai disperare di Dio. Gesù stesso, sulla croce, vivendo l'abbandono più totale, anche di Dio, non può non rivolgersi a Lui come a suo Padre: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». Un uomo non può sganciarsi dall'amore fedele di Dio neppure quando dispera di Dio. Anche se Gesù si sente abbandonato, Dio ancora e sempre il suo Dio.

 

Se la "cifra" dell'amore eterno e fedele di Dio è il prendersi cura del «resto di Israele» tra cui ci sono il cieco, lo zoppo e le altre tipologie di persone povere o fragili, è proprio la guarigione di un cieco mendicante che Gesù compie (Vangelo). Perciò essa assume un valore molto simbolico: l'opera di Gesù è il suo «segno» di come il Signore viene a sollevare l'umanità decaduta e in rovina.
Infatti il primo dato è propria la condizione desolata dell'uomo. Di lui si dice subito il nome, Bartimeo: per esprimere l’attenzione nei suoi confronti. Ricordiamo che dell'uomo ricco che va da Gesù a chiedere cosa deve fare per ereditare la vita eterna (esempio pur positivo dell'uomo in ricerca) non viene detto il nome. I nomi dei ricchi sono conosciuti ed esaltati dagli uomini, Dio, invece, conosce uno ad uno tutti poveri, come quelli che oggi ci rifiutiamo di accogliere, e alla fine ce ne domanderà conto (cfr. Mt 25,31-46).

 

Bartimeo, l’uomo che Dio ama, è invece emarginato dagli altri: «Sedeva ai lati (letteralmente) della strada», confinato alla periferia della vita. I discepoli di Gesù e la gran folla passano, e tutti lo ignorano. Anzi, quando comincia a gridare supplicando Gesù, lo vogliono zittire, perché un povero è sempre un disturbo. Mentre, dunque, tutti vogliono passare oltre il povero cieco, Gesù «si fermò». Anche oggi passiamo via veloci, anzi, molto più frenetici e lanciati. Vogliamo passare oltre le migliaia di civili morti in Palestina. Ci facciamo assorbire dalle troppe cose da fare per non avere a che fare con queste quotidiane notizie. Tanto è vero che non si fa nulla per dire «basta». Ma queste sono ferite all'umanità di cui la condizione del mondo ce ne domanderà conto quando esso sarà in una condizione di irrimediabile rovina, come Gerusalemme al tempo di Geremia.

 

Gesù, dunque, si ferma: ha ascoltato il grido, la supplica del povero cieco Bartimeo. Per Lui non è un disturbo, anzi, è l'appello ad essere Dio: perché Bartimeo supplica l'amore misericordioso (tradotto con: «abbi pietà di me») del Signore. È l'appello al suo amore eterno e fedele.
Gesù è uscito da Gerico e si dirige verso Gerusalemme, dove sa che lì lo aspetta la croce, con il suo carico di sofferenza e di abbandono. I suoi discepoli non capiscono e giocano a fare i grandi (Vangelo di domenica scorsa). Dunque Gesù è solo e incompreso nel suo peso, pur essendo accompagnato da una folla che lo esalta. È quest'uomo, Bartimeo, cieco e mendicante, che gli ricorda e ravviva quella che è la sua missione: amare ciò che non è amabile, ma che suscita tutte le viscere misericordiose e materne di Dio. Nel silenzio della gente vicina che grida acclamandolo e chiedendo privilegi, Gesù ode la voce lontana (perché esclusa) di colui che restituisce il Signore a quella che è la sua missione: rappresentare nella sua carne il Dio onnipotente nell'amore.

 

Gesù ordina di chiamare quel grido alla misericordia. Così fa un'opera di trasformazione della gente che lo circonda: da indifferenti e ostili partecipanti alla processione, a partecipi della sosta di Gesù per dare centralità e accoglienza al povero.
La comunità cristiana deve essere ministra non di un culto e di una dottrina, ma della chiamata del povero al Signore. Perché seguire Gesù e accogliere il Vangelo non possono essere separati dall'ascolto del grido di sofferenza del povero.

 

«Che cosa vuoi ch'io faccia per te?». L'appello alla misericordia del Signore porta a scoprire la sua completa disponibilità verso chi ha fiducia in Lui. La domanda di Gesù non è tanto richiesta di informazioni sul tipo di grazia che il cieco chiedeva: che cosa poteva chiedere se non la guarigione! La domanda a Bartimeo serve a Gesù per mostrare la sua apertura e attenzione nei suoi confronti. Noi possiamo credere in Gesù nella misura in cui prendiamo sempre più coscienza di quanto Lui creda in noi. Così la fede di Bartimeo entra in piena sintonia con l'opera del Signore: «Va, la tua fede ti ha salvato». Ci salva Gesù Cristo, ma così ci dice quanto ci ama e quanto valiamo per Lui. Ed è ciò che dobbiamo credere.

 

«E subito ci vide di nuovo e lo seguiva lungo la via». In quella via dalla quale era scartato, per la sua povertà, ora Gesù lo colloca a pieno diritto, a seguire Lui, diventando dunque vero discepolo del Signore.

 

Alberto Vianello

 

 

Se dovessi scegliere tra la cecità degli occhi e la cecità della fede sarei in difficoltà. Dapprima considererei la cecità degli occhi una disgrazia. Ma se avessi gli occhi buoni e mi mancasse la fede a che mi servirebbe? Per fede intendo la visione delle cose che passano e quelle che non passano che in Dio possiamo avere. Dice san Paolo (1Cor 16): “Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti”.
Sarà cieco il figlio di Timeo, e non si può essere leggeri su questo genere di infermità, ma una cosa l’ha ‘vista’: che Gesù è il figlio di Davide, che è il titolo del Messia, colui che deve venire nel mondo, l’uomo della ‘salvezza’.

 

Che cosa o chi si attende oggi? Noi ragioniamo sempre secondo questo solo orizzonte dove ‘vivere’ è averne di più di salute, di beni, di benessere, di riscontri sociali, di giorni a non finire… Ma sappiamo, volendo, che non è così, potremmo sapere, come sapeva la giovane Sandra serva di Dio, che tutto ma proprio tutto è dono che presto o tardi dobbiamo restituire, magari con qualche frutto.
Ragiono un po’ ancora sulla questione: un braccio ci appartiene, un organo deve funzionare e abbiamo cura di ogni arto che fa capo a noi. Ma che noi facciamo capo a qualcun altro non ci viene in mente. E quando le nostre cose non le governiamo più andiamo in crisi. Ci dovremmo chiedere una volta o l’altra se sia più importante la nostra efficienza, comunque pro tempore, o la vita che verrà e di cui anche oggi si possono godere degli anticipi. La fede non è priva di ragione. Dice Gesù infatti: “Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?” (Lc 12,56).

 

Sentiamo spesso cose simili, anche a Messa. Le rubrichiamo facilmente come opera di parolai, di addetti ai lavori che devono ‘spiegare’ la lontananza di Dio, citando la pochezza della nostra fede. Della prima non sappiamo che dire, ma della seconda possiamo dire qualcosa ma senza darci colpe: si può credere di più, amare davvero. Il silenzio di Dio va utilizzato cum grano salis, con sapienza. A parte ciò, i nostri guai sono seri, occorre considerarli con compassione infinita, confidando nel fatto che Gesù Cristo non è stato, ma ci è contemporaneo e sa “quando seggo e quando mi alzo”. “Se non vedete segni e prodigi, voi non crederete”. Come è bello il Vangelo, il funzionario del re, padre del bambino morente, parla proprio come uno di noi: Signore, hai ragione ma vieni in fretta… “Gesù risponde a Bartimeo: Va', la tua fede ti ha salvato”.

 

Come vuoi tu, Gesù, ma lasciaci dire: ci piace come parli, perché hai compassione per le nostre infermità ma soprattutto per la nostra incredulità.

 

Valerio Febei e Rita

 

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