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Il contagio della compassione

Briciole dalla mensa - 6° Domenica T.O. (anno B) - 11 febbraio 2024

 

LETTURE

Lv 13,1-2.45-46   Sal 31   1Cor 10,31-11,1   Mc 1,40-45

 

COMMENTO

Il racconto del lebbroso guarito da Gesù inizia con una clamorosa violazione della Legge, e continua con altre stupefacenti trasgressioni. Sembra che il lebbroso del racconto voglia provocare Gesù, e Gesù vi acconsenta, diventando Lui stesso "violazione" delle regole.
La narrazione del Vangelo di Marco inizia proprio con l'atto sconveniente: «Venne da Lui un lebbroso, che lo supplicava». È un comportamento di patente trasgressione della Legge: un lebbroso doveva assolutamente tenersi a distanza e gridare la sua impurità, come ascoltiamo nella prima Lettura. Una Legge disumana che rendeva il lebbroso un emarginato per eccellenza. Era considerato uno colpito da una malattia ripugnante, tanto grave da non poterla considerare altro che una punizione di Dio per i peccati commessi. Così un lebbroso viveva la situazione umana più infamante e disumana. Era come un morto vivente, perché gli erano vietate le relazioni familiari, sociali e religiose. Viveva la massima vergogna: era come uno al quale suo padre aveva sputato in viso (cfr. Nm 12,14). Perciò, alla sofferenza fisica, si aggiungeva quella interiore per l'esclusione sociale, per la lontananza dalla famiglia nel timore di un contatto, per l'essere bollato come impuro e peccatore.

 

Marco non ci dice il motivo per il quale lebbroso del racconto osa violare tutto questo, andando incontro a Gesù e gettandosi ai suoi piedi. Mi permetto di ipotizzare che - come nell'episodio della guarigione della figlia di una donna Siro-fenicia (cfr. Mc 8,24-30) - sia proprio la sofferenza e l'esclusione dalla salvezza a dare il "diritto" di violare la Legge, perché deve prevalere la misericordia. Come la donna straniera, come il centurione romano, così anche il lebbroso osa avvicinarsi infrangendo le Leggi della loro esclusione dal Signore e dal suo popolo. Così sarà proprio l'ascolto della sofferenza dell'altro che interpellerà Gesù. Un ascolto della sofferenza che costituisce l'elemento costitutivo di un'identità che voglia essere davvero umano.

 

La seconda violazione è quella di Gesù: «Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò». Dobbiamo notare l'immediatezza e la semplicità del gesto; insieme, però, alla sua carica dirompente: è il crollo della separatezza alla quale il lebbroso era costretto. È il crollo di ogni separatezza tra puro e impuro, tra degno e indegno. Una misericordia che escluda qualcuno o qualche situazione non è vera misericordia. Perché essa è trasgressione della Legge dell’esclusione.
Ci deve colpire e stupire l’immagine di un Gesù trasgressore: noi, che facciamo del rispetto della Legge il requisito essenziale di una persona seria e affidabile. Perché veniamo da un'educazione religiosa all'obbedienza alla Legge sempre e comunque.


Per questo il brano di Marco si fa interessante: da dove viene la violazione della Legge che Gesù fa? «Ne ebbe compassione», dice il testo. Alcuni manoscritti autorevoli riportano un altro verbo: «Adiratosi» (in greco i due verbi suonano molto simili). In Gesù c'è uno sconvolgimento interiore di emozioni e di sentimenti. E questo mondo delle pulsioni del cuore non può essere ridotto a un unico sentire: ce ne accorgiamo anche noi. Forse in Gesù - insieme e ancora prima della misericordia - c'è una rabbia, un'ira per quelle norme così disumane, che facevano del lebbroso un morto religioso e civile. E questo suscita, insieme, un moto di compassione, davanti alla solitudine, all'emarginazione, alla condizione peggiore a quella di un morto di quel povero lebbroso.
E allora Gesù, di istinto e di cuore, viola la Legge: e ci sconcerta un Dio trasgressore. Ma lo è a causa dell'amore per l'uomo. E come in Gesù, deve essere così anche in noi e nella Chiesa: l'amore per il sofferente, per l'escluso deve diventare ribellione in noi, così da farci superare la Legge. È il rovesciamento di ogni Legge che giudica, separa e allontana il diverso. Perché il primato va all'uomo, alla donna, alla persona, non alla Legge.

 

Ma il tumulto dei sentimenti di Gesù non termina qui. Dopo averlo «purificato» (perché guarendo non gli ha tolto solo una malattia, ma anche il rifiuto religioso dell’impuro) «ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: "guarda non di non dire niente a nessuno"». Il testo letterale è più forte: il primo verbo indica uno spazientirsi in segno di collera e di rimprovero; mentre il «cacciare via» è la stessa azione che Gesù compie nei confronti del male negli esorcismi. Da che cosa questa durezza? Ringraziamo il Vangelo di Marco che, per fedeltà alla Parola, non ha cercato di moderare e spiegare, ma ha lasciato lo sconcerto che il testo suscita: Gesù fa il miracolo preso da compassione, poi si spazienta e lo caccia via.


Noi siamo abituati a un Gesù sempre perfettamente calmo e coerente: senza tumulti interiori, senza passione, senza sussulti. E questo ci ha portato a teorizzare la vita cristiana altrettanto priva di passioni. Mentre il Vangelo ci dice altro: e non sempre spiega e lascia il cuore umano nel suo essere complicato.
Rimane, comunque, il gesto grande di Gesù: «Stese la mano, lo toccò». E rimane per la Chiesa di oggi: nel nostro tempo, nel quale non sono solo gli individui, ma sono intere categorie che vengono giudicate immonde, e che la Legge dice di evitare e di escludere. Gesù non ha paura del contagio. Gesù, invece, contagia di compassione, contagia di vicinanza, fino a toccare, anche a costo di violare la Legge.

 

Alberto Vianello

 

 

La religione riguardava tutti gli aspetti della vita quelli igienici, laddove non c’era gran differenza fra salute fisica e spirituale, anzi la prima era ritenuta conseguenza della seconda. Impuro poteva essere lo stato fisico e un comportamento vizioso. I sacerdoti vigilavano, certificando. Succede ancora così in Iran. Le comunità si difendevano cercando di mantenersi integre dalla corruzione morale e dalle malattie incurabili ed infettive. E proprio la lebbra è il simbolo più forte della corruzione, orrore da sempre. Solo nel 1945 se ne è trovata la cura!

L’emarginazione del malato e del diverso in generale tuttavia è essa stessa una malattia del comportamento e si prolunga ben al di là dell’evidenza di quei gravi sintomi. I miei alunni, molto tempo fa, riempivano i temi esecrando la discriminazione, ma il razzismo è sempre qui. Anche un povero, un barbone è considerato contaminante, tale che gente ben vestita preferisce evitarne il contatto. Eppure proprio in loro c’è Dio, amante dei poveri. Il suo Regno è il mondo alla rovescia. C’era un prete, il solito, che diceva ai suoi: “Non lasciate passare il giorno senza aver dato la mano ad un povero!”. Per andare a letto tranquilli varie soluzioni: considerarsi poveri tra moglie e marito e darsi la mano calorosamente. Chi non è povero di qualcosa?

 

A parte gli scherzi, le misure che si prendono per tenere a distanza chi per condizione porta ‘un contenuto scarso di umanità’ (ho qualche difficoltà a scriverlo, ma tant’è…) sono esse stesse, come dicevo, sintomi di malattia culturale e morale. Provo ad immaginare come si dovesse sentire il disgraziato che doveva gridare davanti a sé ‘impuro, impuro io sono’ e suonare il campanaccio. Che io sappia non c’è molta letteratura che descriva quegli stati d’animo, lo stato d’animo del tale che prega inginocchiato: “Se vuoi, tu puoi rendermi puro”. Non dice “guarirmi”, com’è per gli altri, perché la lebbra aveva, ha più che altre malattie connotazione repulsiva. Ma quella purezza invocata è pur sempre una necessità ed un anelito risolutivo e profondo della nostra anima. Rendimi puro, è l’invocazione di Davide nel salmo 50: “Purificami con issopo e sarò mondato, lavami e sarò più bianco della neve… Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo…”.
Basta questo per dire la verità di quel che abbiamo o non abbiamo. Ci manca Dio e Lui solo. Come a dire che il peccato è una malattia corrosiva come la lebbra e non dà pace, non si stanca di amareggiarci, non si esaurisce, né la si può togliere via da sé. Può farlo solo chi per amore può tutto. “Se vuoi tu puoi guarirmi”.

 

La compassione di Gesù tuttavia non gli risparmia un trattamento energico: guai a esaltarsi per la grazia ricevuta, guai l’ammirazione fuorviante per chi l’ha concessa. Gioia intima e discreta… Sì, un’altra volta! Ai sacerdoti ci si penserà dopo, ora è, ovviamente, ‘bala alta’. Gioia incontenibile.
Ci si domanda perché Gesù raccomandasse cose di fatto non praticabili. Tanto clamore gli impediva di viaggiare tranquillo. E di spiegare bene il senso dei segni che faceva.
Da lontano possiamo aggiungere che la ricerca dei segni e l’esultanza per essi sono seri motivi perché siano così rari. La guarigione di qualcuno che ci è caro va cercata e chiesta nel segreto. È carità e “quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te…” (Mt 6,2).

 

Valerio Febei e Rita

 

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